Oggi fuori dal freezer c’è un Blackberry, quei telefoni su cui scrivere era una meravigliosa via di fuga e tenere lo schermo rivolto verso il basso era un’ammissione di colpa.
La scrittrice Anais Nin la pensa così: “L'amore non muore mai di morte naturale. Muore perché noi non sappiamo come rifornire la sua sorgente. Muore di cecità e di errori e tradimenti. Muore di malattia e di ferite, muore di stanchezza, per logorio o per opacità.”1
Te lo dico adesso che non ti vedo da anni e la porta che ho rotto non è più stata riparata: Non è colpa mia. È il mostro nella gabbia, gli si congelano le ossa se la gabbia resta chiusa. Quando l’entusiasmo si spegne mi dice di cercare calore altrove e distrugge tutto.
È inverno e le cose già non vanno da un po’. Bisogna dire che le cose non funzionano mai se poggiano su presupposti fragili. Dopo pochi mesi, almeno con me, si finisce in una realtà diversa da quella narrata a parole.
Perché spesso, non sempre, il movimento tra due persone che si incontrano è questo: Prima si idealizza l’altro o l’altra, quindi si vive dell’entusiasmo di quel riflesso, poi la quotidianità mostra la realtà e ci si allontana un centimetro alla volta. A questo punto c’è chi decide di lasciare e rompere tutto o c’è invece chi rimane, in parte fingendo, in parte confuso dal desiderio di non rimanere solo.
Insomma, fa freddo e mi sveglio all’alba. Dalla finestra entra il sole e la casa è luminosa tanto da non far sembrare Roma la città che c’è tutta intorno, mi appare più come una capitale nord europea. Guardo la mia foto di qualche anno fa appoggiata in cucina, ci sono io sulla tavola da surf2 e già lì le cose non erano poi tanto facili. Ma erano più facili.
Penso che in coppia, se vuoi, sai tutto da subito. Basta saper osservare e puoi sempre scegliere se ignorare o meno i campanelli d’allarme.
Io, ad esempio, per ogni inizio di storia ho usato parole superiori al sentimento e sentivo già che quelle parole sarebbero state nulla di più che l’introduzione di un lungo addio.
Voglio farmi il caffè, prendo la tazza sul tavolo. Il Blackberry in carica non è più con lo schermo rivolto verso il basso3. Devi averlo toccato tu e vuoi che me ne accorga perché lo hai lasciato così.
Guardo il letto, sei ancora lì e ormai lo so che sei sveglia. Aspetti solo di sentire che anche io capisca che qualcosa sta per esplodere. Perché hai toccato il mio Blackberry? Da quanto avevi dubbi? Negherò tutto, inventerò qualcosa. Perché devo apparire perfetto.
Sei una merda, lo sai. Dici.
Sollevi la testa dal cuscino e ti alzi, scendi dal letto e hai un pigiama che non mi fa più effetto, ho sempre pensato tu l’abbia pagato troppo. Paghi tutto troppo. Penso anche di essere arrabbiato con te perché non mi sei mai piaciuta davvero, per quelli come me tu sei come tutte le altre, non è colpa tua.
Ci siamo, sta crollando tutto, vero? Lo penso, non lo dico.
Tu sei come un riflesso che evapora se guardato da un’altra prospettiva, esisti dentro di me perché la tua esistenza mi legittima, mi fa essere qualcosa. Quindi sei la stessa cosa di quella prima di te e di quella prima ancora e di quelle ancora prima fino a quella bambina che alle elementari baciai sulla guancia con il cuore a mille e lei mi sorrise e mi disse Andrea sei bello e pensai che tutto quello che avrei voluto nella vita sarebbe stata una moltitudine di femmine come lei a ricordarmelo. Siete copie, di copie, di copie utili a non farmi sentire vuoto.
Non parli? Non parli eh? Tu mi fai schifo, schifo. Ma dovevo capirlo, dovevo vederlo, mi avevano avvisato. Dici.
Vedo che hai il viso contorto dalla rabbia e neanche riesci a piangere. Mi elenchi quattro nomi di ragazze e mi chiedi chi siano, dando a ognuna di loro un appellativo uguale all’altro: Puttana.
Il punto è che a loro ho fatto credere di essere libero e che mi sarei potuto innamorare, non hanno colpe. Pensa che mi sono anche vergognato per qualche secondo, ma è più forte di me, è come se dovessi farvela pagare e mi sono subito sentito a mio agio spogliandole, è come credere di avere un credito perenne da riscuotere da tutte voi, quando e come voglio. Tutto intorno si è scaldato e la gabbia non sembrava più così fredda da loro.
È un po’ che stiamo insieme ma tu non c’entri niente con me, nessuna c’entra niente con me perché alla fine nessuna donna c’entra con alcun uomo se usata per compensare4 quanto non si è ricevuto in passato.
C’entrano le circostanze. Gli incastri. Le intenzioni. Il resto è narrativa.
Ti chiudi in bagno e strilli che mi rovinerai la vita ma non so bene come potresti fare. Non siamo sposati, non abbiamo figli o figlie, non abbiamo casa insieme, non abbiamo nulla in mano se non questo nostro rapporto spacciato per amore tra me che non so amare e te che non sai guardare.
Non puoi chiudermi la porta del bagno di casa mia e strillarmi contro, vado in tilt se la mia immagine perfetta si spacca. Così busso due, quattro, sei, otto volte sempre più forte e tu dici smettila, vattene. Se avessi mai preso ansiolitici in vita mia, forse, ora sarebbe il momento di ricominciare, ma non ho vizi o debolezze se non questa cosa che ti tiene dall’altra parte della porta. Guardo il Blackberry Bold5, piccolo e lucente, nero. Lo prendo, è bellissimo e risplende. Leggo i messaggi che hai letto. Federica, Ilaria, Martina e Marta.
Torno dietro la porta. Mentre respiro, ammetto ho il respiro appena affannato, sento come creparsi la pelle dalla fronte in giù verso il collo, come argilla che si secca e si spacca al sole. Una parte di me, la sinistra, prova piacere, almeno posso farti sparire, disintegrarti. Sei tu che non hai saputo vedermi, era tutto lì sotto i tuoi occhi, ora di cosa piangi?
Le crepe si allungano sullo sterno, la parte destra dice che ti ama quasi piangendo, che ho fatto un casino e ci crede ed è disperata perché responsabile della rottura e della sofferenza e pensa tu, io ho causato sofferenza solo perché sono nato figurati quello che posso fare a te, è più forte di me, mi devi scusare ma ho bisogno di aiuto.
Il sole cresce e sembra enorme tra i palazzi, le finestre lo riflettono e mi vedo baciato dal caldo dei raggi mentre la pelle si tagliuzza di venature secche da cui esce polvere.
Un uomo che non sa amare lo riconosci. Oggi tendenzialmente una donna ferita lo chiama narcisista patologico a prescindere e il punto è divertente perché è come etichettare un maiale, o un pollo, o una sardina come carne o pesce e basta. Ma non basta. Perché un uomo non è una sola cosa; un uomo non ancora formato può cucire le proprie ferite con la carne altrui, può soffrire, può non capire e far soffrire e spesso lo fa perché non ha altri strumenti. Ma si può riparare se non lo si etichetta e lo si manda al macello.
Così busso più forte e alla fine sfondo la porta. Ti vedo che piangi rannicchiata e la parte sinistra prova un fastidio purissimo, odio direi. Sai quelle robe mostruose da film? Provo fastidio per la debolezza altrui, quella femminile in particolare.
Le crepe si allungano e si allargano come fessure, ora ci entrerebbero quattro dita, inizio ad aprirmi in due della testa fino agli addominali. Metà vorrebbe sempre strillarti di smettere di piangere, di frignare, di lagnarti. Metà vorrebbe mi perdonassi e capissi il dolore e che ci lasciassimo in pace.
Sei bellina, trovati uno che ti stia appresso. Dico.
Tu mi tiri in faccia il piattino che regge il sapone, ma non mi prendi e il piattino va in mille pezzi a terra. Penso a quanto sono veloce.
Resto fermo sulla porta.
Sei un mostro, fai schifo.
Penso che sei la decima donna che me lo dice, dieci su un centinaio posso sopportarlo. Questo lo pensa la parte sinistra, la parte destra dice no, sa di non essere mostruosa.
Continuo però a rompermi, le crepe aumentano vistosamente al centro del corpo e non capisco cosa c’è che non va.
Cosa mi sta succedendo? Dico.
La mia metà destra pulsa come carne al macello. Mi fa ricordare che ti ho voluto un gran bene e che ti ho rispettata per un periodo ma che non è mai stato amore e che ogni volta è così, poi sono scivolato via. Devo farmi aiutare. Penso che ti ho aiutata, che ho aiutato un sacco di persone vicino a te e penso che l’altra parte è marcia ma mi dà forza e mi regge in piedi.
Non andartene, ti prego dico.
Poi torno dillà a sinistra nella parte nera. Sono confuso, così confuso che mi guardi e vedo che sei spaesata quasi che non mi riconosci.
Perché fai del male alle persone che ti amano? Dici.
Non rispondo, è una domanda stupida penso.
Ti alzi, hai le gambe lunghe e abbronzate e mi ricordo che non ho mai trovato molto in te, per me.
Te le sei scopate tutte e quattro, pezzo di merda.
No.
Guardami negli occhi bugiardo, sei un bugiardo.
No, te lo giuro. Ti guardo negli occhi.
Sei un mostro.
Te lo giuro.
Ecco. Il punto della bugia è delicato. La bugia è un teletrasporto che dalla realtà ti porta veloce dentro realtà parallele interiori dove nascondersi.
Che vuoi tu? Ma che ne sai tu del mio dolore? Dico.
Dolore? Dici. Ti viene da ridere, hai la bocca contorta di rabbia.
Il Blackberry suona. Lo prendi tu. Il sole ormai ha scaldato la casa, rispondi e dici troia non richiamare mai più.
Io mi metto le mani nei capelli e mi siedo sul divano.
Posso mettere la musica? Dico.
Non voglio più vederti Andrea. Dici.
Tu singhiozzi, vederti piangere aumenta il fastidio che mi scorre dentro.
Mando mio padre a prendere le quattro cose che ho qui. Tu fatti curare. Dici.
Ora stai per piangere di brutto, lo vedo. Mi fai tenerezza e la parte destra si sente male, completamente in tilt ti supplico di capire.
Il tradimento, in effetti, è una malattia come il gioco d’azzardo o l’alcool. Cosa ci vuole a lasciare una persona se non la si ama più? Beh, spezzare un legame a volte è impossibile e se si odiano le donne, non si comprende il dolore che si può infliggere e ogni volta è come avere una bottiglia davanti a sé che dice bevimi.
Qui c’è un bellissimo articolo sul tema tratto da INTERNAZIONALE
Mi apro in due, diviso del tutto. Una parte polverosa e secca si avvicina a te e cerca di abbracciarti, tu ti tiri indietro ma con un solo braccio non riesco ad afferrarti, non riesco a scusarmi, non riesco. L’altra metà prende il Blackberry e cancella i messaggi e penso che forse almeno Martina la rivedrò.
Tu te ne vai. Io resto a metà con in mezzo il vuoto.
La parte destra dice alla sinistra vedi, possono essere due, tre o quattro o cento donne ma come disse Marcel Proust: È la nostra immaginazione la causa dell’amore, non l’altra persona. E la nostra immaginazione creerà e distruggerà ancora e ancora e alla fine ci ucciderà di solitudine dopo aver mandato al manicomio una sfilza di persone se non chiediamo aiuto.
Le due parti esplodono in nubi di polvere e mi sgretolo sul pavimento al sole di un mattino d’inverno, mentre tu sei già fuori e non ti vedrò mai più.
Giro il Blackberry tra le mie mani fuori dal freezer. Non si accende più da tempo. Alla fine crescendo si diventa integri solo in funzione del valore che si da alle cose cui si da importanza. Se scegli qualcuno o qualcosa e difendi e dai valore perchè non ti serve a compensare il dolore, la pelle non si creperà più e non diventerai polvere; ma se togli valore, se continui a cercare di riempire il vuoto e basta, il mondo ti asciugherà e ti seccherà come una pianta nel deserto fino a polverizzarti.
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Come sempre ti lascio un ricordo caldo delle ultime due settimane, bello o brutto che sia.
Mi capita ultimamente di salire sul ring per fare un po’ di sparring. Più che altro per capire il perché arrotolo la rabbia intorno alla spina dorsale e lascio che mi blocchi tutto, contorto tra mal di schiena e immobilismo.
Lo scorso venerdì in palestra non avevo con me il paradenti. La persona con cui salgo sul ring è un pugile che sa dove colpire, non solo con i pugni ma anche con le parole. Essendo un ex professionista so che non mi farà male ma neanche bene; così, in guardia, cerco di avvicinarmi e provo a colpirlo. I miei jab, il jab è il pugno davanti per capirci, sono così deboli che provo fastidio, eppure sono allenato. Cerco di muovermi. Non ho mai affrontato la questione della forza nella mia vita, la lego solo alla rabbia, mai al controllo, alla strategia, alla resistenza, ai valori.
Lui mi sembra enorme e so che, se volesse, in meno di cinque secondi mi butterebbe a terra. Ma mi aiuta. Nessuno mi ha mai aiutato a capire i movimenti interiori che vengono fuori.
Alza le braccia. Dice.
Stai chiuso, i guanti sulle tempie. Dice.
Insiste e mi tiene all’angolo e mi da qualche pugno sui guantoni.
Respira bene. Come cazzo respiri? Dice.
Io quasi non riesco a muovermi, sento le corde sulla schiena. Gli do un jab e poi un diretto, molli.
Socchiude gli occhi e sbuffa, mi colpisce sui guantoni, forte ma mai sul viso.
Colpisci. Colpisci. Dice.
Abbassa i pugni e le braccia e mette la sua faccia senza guardia a pochi centimetri da me.
Colpiscimi, dice.
Provo a colpirlo dritto in faccia ma non gli faccio nulla, lo prendo tra naso e fronte con un pugno che sembra una carezza, non posso colpirlo così se non si copre. Lui sbuffa, non gli faccio niente.
Mi vuoi colpire? Dice.
Carico di più, questa volta il diretto che è il pugno dietro, quello più forte, lo prendo con più decisione.
Oh, meglio. Dice.
Mi viene sotto con la guardia alta.
Esci di lato. Dice.
Io non riesco, non ho forze, non respiro.
Esci di lato, non rimanermi davanti, impara a essere morbido, sei rigido. Muoviti. Dice.
Mi chiudo dietro i guantoni. Così lui parte con una serie di montanti ai fianchi che se ci avesse messo la sua forza normale, probabilmente sarei morto.
Eppure li sento, ho i muscoli tesi, aumenta la forza e smetto quasi di respirare e penso che la mia forza è tutta incollata intorno alla spina dorsale e lì resterà.
Finché non suona la campanella. È la salvezza per me. Respiro a fatica e vedo tutto nero e so che lui sa controllare perfettamente la forza, una forza devastante che non vuole fare male ma può. Questa consapevolezza lo rende forte nell’accezione più limpida possibile. Faccio per scendere dal ring.
Dove vai? Dice.
Non ce la faccio più. Dico.
Bene, resta qua. È adesso che devi capire come gestirti. Vieni. Dice.
Un tempo sarei sceso, non voglio sgretolarmi e rimandare, così sorrido, mi giro e mi preparo per una nuova ripresa in cerca di forza.
Ecco, il pugilato avrei voluto iniziarlo prima, quando ancora la spina dorsale era elastica e avrei potuto trasformare la rabbia che mi immobilizza in forza, ma non c’era nessuno ad incalzarmi, a insistere e continuare a cercare cosa c’è oltre la rabbia, oltre il gelo dei propri limiti.
La copertina è come sempre del mio amico geniale Luigi Annibaldi.
Qui puoi girare questo post a qualcuno cui potrebbe interessare leggerlo.
Nll’uscita che trovi al link, ho scongelato una tavola da surf e l’impossibilità/costo di andare a fondo.
Qui c’è qualche chicca di uno psicoterapeuta per capire un po’ alcuni segnali tipici.
Amore e compensazione è un argomento così importante da leggere. Al link c’è una bella riflessione.
Miglior telefono di sempre, non averli più è un peccato.
Bellissimo ed emozionante. Grazie.
Grazie, illuminante.