Ti do il benvenuto, a te che leggi.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto da un po’, copriti. Metto di nuovo le mani dentro, questa volta però, tra gli oggetti, la mano scende e va a vuoto. Sembra non ci sia un fondo.
Sento qualcosa. Perché questa volta non riesco ad afferrarlo subito? Il braccio si raffredda, la mano fluttua nel vuoto sul fondo del freezer come se ci fosse uno spazio nascosto.
Quello che tocco è liscio. Lo tasto, non capisco. Sfioro protuberanze dure, all’interno una sostanza molle si appiccica alla pelle. Mi sporgo di più. Il freddo sale, l’oggetto scorre dai polpastrelli fino al palmo della mano e finalmente lo afferro. Quando la mano e il braccio sono fuori, un vento caldo mi accarezza il viso e chiudo gli occhi. È un attimo che mi divide: il corpo si affloscia, resta immobile mentre l’anima riavvolge il tempo.
Fluttuavo immerso nel buio, sentivo freddo. Una spina dorsale bianca, tra le mani, scheggiata da vertebre che brillavano di nero, era immersa nell’ombra della schiena di una donna, là dove si srotola l’universo. Non avevo corpo, galleggiavo come fossi fatto d’aria e di minuscole particelle d’acqua, iniziai ad avvicinarmi a lei. Ero attratto da quel lungo osso che si srotolava nel buio. Era l’unica realtà consistente nello spazio vuoto in cui ero immerso.
Dalle vertebre della donna sgorgava un fiume nero, composto di fili liquidi e densi che si districavano tutti intorno alla colonna vertebrale. L’acqua riempiva l’ombra del suo corpo sospeso nello spazio davanti a me.
Sentivo del calore sprigionarsi da quel fluido. Avrei potuto decidere di non avvicinarmi. Sarei potuto restare immerso in quella tomba gelida d’eternità, dove il freddo mantiene l’inconsistenza e lascia fluttuare nel vuoto.
Mi sforzai, spinto dall’intenzione di portare il mio freddo fino a lei, e un alito gelido le accarezzò la spina dorsale. Ne uscì un suono cupo, grave, intervallato dal picchiettare di gocce d’acqua su una superficie dura. Il fiume aumentò il suo flusso. Desiderai attraversarla, immergermi, agognavo il suo calore, sentivo che mi avrebbe potuto dare corpo.
Ma il freddo mi teneva lontano abbastanza per non rischiare.
Minuscole gocce nere, mosse dal suono, improvvisamente iniziarono a separarsi dal fiume. Una a una uscivano dal flusso, raggiungendomi. Percepii sapore di terra, che sapeva di pelle e sapeva di sudore e le vene della donna si svuotavano dell’acqua nera che fluiva dallo scuro della sua carne verso di me. Desiderai scorrere insieme a quel fiume, entrare dentro una sua vertebra, farmi cullare da quei fili, volevo il suo calore, così nuovo per me.
Il desiderio spezzò il freddo, mossi la massa informe che ero verso la colonna vertebrale della donna, calamitato dalle gocce d’acqua e mi sciolsi in quell’acqua che era di fuoco.
Ruotavo, galleggiavo, il calore contrastava il freddo addensando le gocce d’acqua su di me. Un vento bollente mi attraversò, mentre il fiume nero scorreva e strozzava il respiro di entrambi. Gli occhi neri della donna brillarono di colori luminosi, sentii il suo sguardo e la schiena, la pelle della schiena della donna divenne spessa e soda mentre la mia carne nasceva, si ispessiva e prendeva forma. Potevo vedere le sue ossa, volevo anche quelle per me; il bianco brillava e la spina dorsale fluttuava morbida e resistente.
Ero al caldo: lava dentro acqua nera a bagnare l’universo, mentre il suono cupo cresceva dalla sua colonna vertebrale e le gocce d’acqua rallentavano.
Da che ero anima nel vuoto, sentii la carne crescere e i fili neri della donna scorrere dentro di me. Fili liquidi che mi tenevano al caldo e, tra spazio e tempo, intento a sentirmi, il suono cessò.
La schiena della donna, prosciugata, si irrigidì, vibrò e vibrai anche io e rubai il suo piacere donandole il mio. Il fiume nero zampillò dalla spina dorsale e uscì dalla sua bocca svanendo nello spazio. Dalla vertebra, asciutta, dove mi trovavo, esplosi.
Migliaia di colori illuminarono lo spazio e grandinarono tra le sue vertebre, la spina dorsale le si riempì di un fiume colorato da cui mi lasciai travolgere, trascinandomi via immerso nella corrente tra i colori caldi che mi donarono la vita.
E in un attimo sentii anima e corpo uniti.
Di nuovo davanti al freezer, completo, mi tocco la faccia. Il naso e gli occhi mi bruciano, sento i muscoli rigidi quando un’ultima goccia nera cade a terra dal mio occhio. Noto che la colonna vertebrale della donna è sparita, mi investe una mancanza che sentirò per sempre.
L’universo aveva capito che fra la vita e la morte c’era l’amore.
I ricordi sono quello che sono. Puoi pescarli nella memoria che hai o nella memoria universale o in quella che non sai più dove si trovi. Se li scrivi, esistono. Se hai ricordi che credi non siano tuoi, che credi esistano in luoghi remoti di te, scrivili. Colorerai così la storia del mondo senza accorgertene.
Nelle due settimane passate, sono successe un po’ di cose.
Ho riso al teatro con Edoardo Ferrario, un comico romano, e mi sono chiesto come abbia fatto un ragazzo che scherza come scherzo io, a essere così capace di trasformare una dote in un mestiere senza buttarla via. Quanta intenzione ci vuole per riuscire?
Ho scritto un paio di pezzi per il magazine della scuola di scrittura Genius, trasformando in gelato la boxe e L’Avversario di Carrère.
Trovate qui le due notes della domenica, consigli di libri per “scongelare“. Il barone rampante e Un amore senza fine.
Una nota calda, mia figlia mi ha disegnato così:
Di Amelia Fassi - “Papà mi ascolta con cappello da pirata al tramonto”
Bellissima esperienza leggerti, anch'io mi sono immersa in questo tuo fluttuare
come in un bagno cosmico dove tutto si muove verso una perfezione che è vita e il suo contrario.
Non ti ho mai detto che è un privilegio, per me, leggerti prima che parta la tua mail ogni due giovedì. E mi piace questo movimento per cui, fino al momento dell’invio, si parla di te e del tuo testo, poi mi accomodo qui, sotto i commenti, e scrivo cosa mi si è scongelato a contatto con i tuoi racconti.
Volare in questo tuo spazio mi ha riportato a un momento in cui ho avuto una sensazione forte, stranissima, direi di dissociazione ma non è del tutto quello che intendo. È successo mentre lavoravo. Uno dei miei lavori è a contatto con bambini con cui devo, nel più breve tempo possibile, instaurare una relazione quanto più significativa possibile. Alcuni li rivedo, anche per mesi, alcuni li incontro per un quarto d’ora e non li rivedrò mai più.
C’è stata, per un paio di mesi, una bambina, piccolissima, non parla e a stento ha cominciato a camminare. L’ho sempre vista molto traumatizzata, ogni volta è stato un lavoro lungo conquistare la sua fiducia e convincerla che non le avrei fatto male. Una delle ultime volte che l’ho vista era seduta al centro del letto, le sbarre alzate a impedirle di cadere ma anche di vedere, la madre aveva dovuto allontanarsi, lei era lì che piangeva disperata. Io e il mio collega le abbiamo provate tutte, giochi luminosi, canzoni, animali, marionette, ma niente. Un pochino si è distratta quando ho cominciato ad accarezzarla, ma arrivava sempre il momento in cui riprendeva a farsi scuotere da un fremito di desolazione che non credevo possibile, così doloroso, in una bambina così piccola e ricominciava a piangere. A un certo punto ho fatto una cosa che per regolamento non sempre potrei fare, ma ero forte della relazione di affetto e fiducia che avevo già con sua madre e del passaggio di informazioni di inizio turno per cui sapevo di non fare nulla di rischioso: l’ho presa in braccio. Ho preso a cullarla, in silenzio, mentre il mio collega le cantava piano una ninnananna. Sentivo tutto, tutto il suo corpo minuscolo che lentamente si lasciava andare contro il mio, il suo fremito che a ogni ondata si indeboliva un po’. Sentivo il mio cuore come non l’ho mai sentito: non so spiegarlo, batteva in un modo diverso, in funzione del fatto che era lì per trasformare il respiro e la tensione del corpicino che stringevo a me. E io, in quell’ascolto tutto fisico, non vedevo più nulla di quello che c’era intorno a noi, la stanza era diventata infinita, e in questo spazio senza confini c’era posto solo per quel contatto.
Una delle mie poche certezze nella vita è che non avrò figli, per una serie di motivi. Quello è stato l’unico momento in cui, con gli occhi persi in quell’infinito e il cuore che mi era diventato enorme e pulsava dentro e fuori di me, per un istante ho pensato che davanti a quella cosa lì ogni paura, le mie validissime motivazioni, tutto diventava insignificante.
La voce rotta dall’emozione con cui il mio collega ci accompagnava, non so come, a un certo punto mi ha fatto capire che la bambina si era addormentata: l’ho messa a letto e sono rimasta col viso accanto al suo quando ha aperto gli occhi e si è un po’ agitata, le sono rimasta vicinissima a maledire la mascherina che mi impediva di respirarne l’odore. Poi è tornata sua mamma e io l’ho riconsegnata alle sue cure e, chiudendomi la porta alle spalle, sono tornata alle mie certezze.
Grazie per avermi permesso di ricordare, mettere in parola e condividere il ricordo di quell’enormità, la memoria di qualcosa che non vivo, non vivrò, eppure l’ho sentita stampata addosso così vivida.