Ti do il benvenuto, a te che leggi.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Metto di nuovo le mani nel freezer, è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori un’altra cosa.
Vediamo di metterla a scongelare:
Il sole si fa strada tra le tende, scalda le lenzuola di seta come un bacio arroventato e nella stanza l’aria condizionata svanisce. Odio la seta, assorbe tutto, scivola sulla pelle e lascia come una scia elettrica di brividi. Le coperte sono nere, ieri però, con il buio, non avevo notato le sfumature violacee. C’è questo odore dolciastro nella stanza da quando sono arrivato che sa di mango e papaya. Devo scrivere a G., sarebbe tanto voluta venire anche lei. Forse dorme. Da Zanzibar sono due, tre, quattro, quattro ore di fuso orario. Anzi no, sono due, due, due sì. Mi metto seduto sul letto, ai bordi le coperte seguono le forme di due corpi; faccio per scendere, devo scavalcarne uno. Le sfioro la pelle e fa un po’ come la seta, solo più liscia e non elettrica e più morbida. Prendo il telefono, le undici, a Roma sono le nove. Hey tesoro buongiorno, qui tutto ok, tu? Scrivo.
Sopra al lavandino del bagno pende uno specchio rettangolare sbeccato ai lati, per metà mi riflette, per metà riflette i quattro piedi che escono dalle lenzuola. Sul lavandino sono appoggiate le cuffie, quelle cuffie che coprono tutto l’orecchio e annullano i rumori intorno e quando le indossi sembra di stare da soli in aereo mentre si decolla con la musica che va, le infilo. Raccolgo da terra il dépliant dell’azienda che mi ospita e lo appoggio su uno sgabello, l’ho tolto dallo zaino insieme ai documenti e me ne ero scordato e deve essere scivolato via. Ogni anno l’azienda offre un viaggio premio ai migliori clienti.
Lo specchio mi opacizza il volto per un istante. Accendo le cuffie, prendo l’iPod dalla tasca dei pantaloncini.
C’è questa canzone che mi fa bene, spingo play.
Riflesse sul letto vedo le gambe di M., dice che gestisce una gelateria in Sud America e quando lì è inverno viene da suo marito che vive in Europa; vicino a lei, abbracciata a un cuscino, ancora dorme A. Dice che è di Brescia e che il proprietario l’ha mandata qui a Zanzibar per merito. Si sono conosciute in aeroporto quando sono atterrate.
La canzone continua, buongiorno amore, leggo dall’anteprima la risposta di G.
Mi guardo di nuovo allo specchio, come quella volta da bambino la faccia si mostrifica, (ne avevo parlato qui, ricordi?) il riflesso diventa un susseguirsi di ombre, è un attimo però, perché alzo il volume e subito tutto torna limpido.
Indosso i pantaloncini, mi guardo intorno, c’è un bicchiere macchiato di rossetto con ancora l’avanzo di un amaro, lo bevo e lascio il bicchiere sul lavandino e abbandono il gusto al dolciastro che si attacca al palato. Ho ancora lo zaino da disfare e credo non lo toccherò. Sul comodino c’è il libro di Palahniuk “Soffocare”, un reggiseno di pizzo rosa, uno nero liscio color carne, un beauty case da cui escono un mascara e un rossetto, un pacchetto di sigarette, uno spray nasale, un bracciale e una pinza per capelli con Minnie con le orecchie da coniglietta.
Resto o esco? Dico. Non rispondono. Forse potrei svegliarle.
Esco.
La mia stanza è alla fine di un sentiero che si snoda tra palme altissime e se guardo su vedo anche delle noci di cocco belle grosse, non c’è un filo d’aria e mentre cammino l’umidità mi si sparge sulla faccia. Una donna vestita di blu indossa un largo grembiule bianco, dalla fronte le colano minuscole gocce di sudore all’altezza dell’ attaccatura dei capelli, spinge un carrello e mi saluta. Io le sorrido.
Strofino i piedi sulla sabbia, li struscio fino ad affondarli e i granelli mi pizzicano la pelle, ho fame. È che il viaggio copre le spese per una persona sola. Avrei potuto pagarglielo io a G., o avrei potuto dirle di pagarlo e venire, praticamente conviviamo, forse gliel’avrei potuto pagare sì. Boh. Ha fatto un po’ di storie per la mia partenza.
Premo a caso i tasti laterali dell’iPod. L’audio si abbassa e in quel momento un varco si apre e un peso cala sul petto come una pressa che spinge su un cubo di ferro. Forse G. non mi crederà, si accorgerà di come vivo quando sono solo, mi farà domande e non voglio si accorga di me, dei miei lati che non conosce. Il dito incontra l’altro tasto e il volume si alza e la musica torna a sovrastare tutto e non mi interessa più nulla; il varco si chiude, il torace si rilassa e mi torna la voglia di caffè e anche di bacon e di uova strapazzate e di muffin.
Sul sentiero incrocio un gruppetto di agenti di vendita dell’azienda che mi ospita, tolgo le cuffie. Shhh, shhh, dice uno. Sono in quattro, in cerchio, che guardano qualcosa.
Che figa però. Dice.
Ma che figa!? È tutta rifatta, guarda come si muove poi. Dice una donna.
Hanno tutti le spalle ricurve, anche la donna; uno di loro ha il volto uguale a un pesce che non riesce a respirare. Io sono diverso, alla fine. Forse. O forse sono peggio, molto peggio. Tanto peggio. La musica si scioglie dentro le orecchie e non permette ai pensieri di ancorarsi. Mi avvicino.
Appena dietro di loro, in silenzio, li osservo mentre guardano un video su un telefono.
Dai sarà una escort, dice la donna. Le squadra il corpo. Sicuro si fa pagare, dice.
Nel video c’è M., il suo corpo scuro, liscio come le lenzuola del mio letto ma senza elettricità e con profumo, balla sulla sabbia. Il video è di ieri, girato durante la festa che l’azienda che ci ospita ha organizzato sulla spiaggia; i ricci le si muovono come minuscole onde del mare di sera e indossa un costume striminzito e mi viene su del calore dal petto. Mi trema una mano.
È una mia amica. Dico.
Un banco di pesci che sente le vibrazioni di un pericolo che arriva da lontano si sarebbe allarmato con maggiore dignità. Il tipo con il telefono in mano quasi salta e il dispositivo gli scivola nella sabbia. La faccia che gli viene fuori potrebbe far ridere, ma non riesco.
Cancellatelo subito. Dico.
Hanno la fisionomia che meno sopporto, perché il corpo, i lineamenti, parlano di te più delle parole. Occhi piccoli, visi appuntiti, gambette magre su pance gonfie d’aria, labbra sottili, denti perlati e pelle nuda che si affaccia da camicie a maniche corte imbrunite da peli sparuti, barba curata e sguardo sciacquato e punti neri tra il rossore del sole e il pallore della città.
Fisso negli occhi la donna. All’interno le si muove un’ombra liquida, ha paura del tempo che passa, del corpo che cambia, dell’amore del marito che sfiorisce, il corpo che non suscita desiderio.
Cancellatelo.
Faccio un passo in avanti. Il sole si arrampica verso mezzogiorno, la pelle si secca e si screpola di rabbia.
Faccio un altro passo in avanti, ho la faccia a pochi centimetri dal tipo con il telefono in mano e sento l’odore caldo di dentifricio alla menta misto a caffè che gli soffia dalla bocca verso il mio naso.
Desiderare di colpirlo mi asciuga la bocca e mi arrossa gli occhi e mi sembra esagerato ma non so controllarlo. Lui non parla, passa il pollice sul telefono e vedo che cancella il video. Faccio un passo indietro. Non per il video cancellato, ma perché l’uomo adesso, in questo istante ha il mio viso, proprio la mia faccia, gli occhi, il naso, tutto, guardo gli altri e hanno tutti la mia faccia, tutti uguali a me e ridono. La donna invece ha la faccia di G. poi di M. poi di A. Prendo il mio telefono, leggo l’anteprima sullo schermo, amore mi manchi.
Indietreggio, per fortuna il gruppetto ne approfitta e si allontana a passo svelto. Metto le mani sul viso e scivolo, la schiena nuda gratta sul muretto finché i pantaloncini toccano la sabbia e mi ritrovo seduto a terra. Mi strofino le mani sulla faccia e la pelle mi brucia, immobile spalanco gli occhi mentre inspiro, passa qualche minuto o forse mezz’ora o un’ora. Sento ridere. Tra le dita intravedo la porta del mio bungalow aprirsi. Di soppiatto esce M., gli avambracci le coprono il seno rotondo e il beauty case sta incastrato sotto al braccio, dietro di lei A. indossa un pareo scuro e una canottiera color pesca. Si siedono sul piccolo portico in legno davanti all’entrata; ridono, bisbigliano e quando mi vedono sorridono e salutano.
Sento gli occhi bruciare, come se si stessero velando. Passo il dito sull’ iPod, parte la musica che aumenta man mano che indosso le cuffie e i suoni intorno spariscono e gli occhi si asciugano e si rinfrescano, li socchiudo per via del volume alto. Sblocco il telefono, apro la chat con G. e scrivo: anche tu. Poi mi alzo, mi aggiusto i pantaloncini e cammino verso il portico.
Di nuovo davanti al freezer ho le cuffie in mano che gocciolano. Le collego al telefono e le provo. Spingo play ma la musica non parte, subito torna la pressa sul petto, mi allarga le costole. Spingo play altre due volte, tre, ma niente, non si sente. La pressa va, schiaccia le interiora e pure l’anima. Respiro, la musica non mi serve più, butto le cuffie e ascolto. Sono passate ore, giorni, mesi, anni di nulla fino a oggi, quando finalmente, dall’occhio sinistro mi scende una lacrima. Una sola. Scivola sul viso, la sento, esce da dentro di me e lascia dietro di sé una polvere collosa, un brivido, poi la pelle la assorbe e sento il corpo leggero e triste. Per la prima volta la malinconia mi invade e la lascio scorrere e si mischia alla carne, questo significa sentire e dopo un po’, la lacrima rispunta dall’occhio e lo bagna e mi viene pure da sorridere. Almeno, dopo tutto quel vuoto, sono ancora vivo.
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Permetterci di ascoltare le nostre emozioni ci rende vivi. E non è mai troppo tardi per farlo. ✨🌈✨ Anche questa una puntata che risuna nella parte più profonda di noi. Grazie 🥹
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