Ti do il benvenuto, a te che leggi.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Il freezer è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori un’altra cosa che mi capita tra le mani e le fredda.
Vediamo di metterla a scongelare:
La macchia di sangue dista cinque mattonelle dalla bacheca dove sono appese pubblicità universitarie, promozioni per donazioni di sangue, appuntamenti per controlli oncologici, numeri di telefono da strappare di nutrizionisti e di fisioterapisti. La puzza di ospedale, quell’odore di malattia e disinfettante e chimica che ti gratta le narici e ti fa venire la paura della morte, resta sospeso sotto al mio naso lungo tutta la corsia. Anche se sei qui solo per un dito o per un graffio, ti capita di pensare che dall’ospedale molta gente non esce più.
Sto seduto da solo su una seggiolina verde. Guardo la macchia di sangue.
È un prelievo fatto in corsia gestito male da un infermiere, s’è impanicato e l’ago zacchete. Dice.
Non l’avevo vista l’infermiera, ora che mi cammina davanti mi accorgo delle ciabatte mediche che schiaffeggiano il pavimento.
Dobbiamo ancora pulire ma qui non ci fermiamo un attimo, siamo pochi e voi venite pure per un graffietto . Tu che stai a fa? Dice.
Aspetto. Dico.
Il ciabattare si allontana, lei annuisce mentre i suoi boccoli biondi seguono il ritmo delle scarpe.
C. non arriva.
@C dove sei? Scrivo.
Abita lontano, ci sarà traffico, il traffico di Roma è un casino anche di sera, è venerdì e neanche dovevamo vederci. Guardo la macchia di sangue sulla mattonella, le seguo come se fosse un segnale stradale. Il calendario che trovo in alto a destra della bacheca segna ieri, dieci ottobre duemilanove.
Un’ora per l’accettazione, mezz’ora per la lastra. La maglietta si sta asciugando sulla pelle, se quel deficiente non mi avesse dato un calcio dritto sulla mano invece che sul pallone ora sarei a casa.
Guardo la mano. Se normalmente è piccola, ora sembra quella dell’omino Michelin. Mi rendo conto di non avere particolare percezione del mio corpo, cioè non faccio mai attenzione alla carne, penso sia un involucro che funziona e in automatico va. Provo a muovere le dita. Prima c’è del calore, poi una fitta che si irradia dalla mano fino al cervello e fa il giro, mano testa, testa mano.
Chiudo gli occhi così forte che fatico a riaprirli.
Del medico non c’è traccia. Un ometto con i capelli da prete lisci e neri, sottili, che mi ha mandato a chiamare per lasciarmi seduto qui.
Controllo meglio una cosa che non mi convince, ha detto. Poi è sparito. Guardo la porta dove è entrato, chiusa. Prendo il telefono, stiamo arrivando scrive C., le invio un cuore.
Mi chiedo quanto ci voglia a controllare una lastra. In quel momento il dottore esce.
Fassi Andrea, dice.
Mi guardo intorno, come se non fossi certo di essere io.
Sì. Dico
Vieni.
Gli occhiali spessi e i capelli neri sono intervallati da un naso liscio a punta appena perlato, ha la pelle bianca e gli occhi marroni rotondi. Rispetto a prima ha un’espressione però più, non so, più grave.
Sarà stanco. Poi io sto qua per un calcio giocando a pallone.
La sala medica è tutta una lastra, due armadietti colmi di medicinali e garze, un lettino e una tendina che separa il lettino da un altro lettino e un altro lettino ancora con sopra della carta con una minuscola goccia di sangue. Mi gira un po’ la testa. L’ultima volta che sono stato in ospedale era per togliermi le tonsille a dieci anni. A pensarci, il mio corpo non lo osservo granché.
Hai fatto analisi del sangue ultimamente? Anomalie? Dice.
Scusi?
Chiedo se hai fatto analisi del sangue ultimamente e se le hai fatte, ci sono state anomalie?
Non faccio le analisi da due, tre anni boh. Dico.
Mi sa che non le faccio da molto più tempo.
Ma poi perché me lo chiede? Dico.
La sua faccia sembra più appuntita di prima, tipo punteruolo che sta lì a incalzare.
Beh, non va bene. Almeno una volta l’anno. Una volta l’anno. Lei è dell’ottantaquattro leggo, quindi ha circa ventisei anni. Vanno fatte una volta l’anno se no poi, se ci sono noie, non si arriva per tempo.
Scusi? Dico.
Le do un bel consiglio. Senza allarmismi ma con pregna urgenza. Dice.
Pregna urgenza? Mi si seccano gli occhi, sbatto le palpebre. Ho la sensazione ci provi gusto a parlare così, a tenermi a pochi centimetri dal punteruolo che è la sua faccia.
Mi scusi, non ho capito.
Appoggia la lastra sul tavolino che ci divide.
C’è un’ombra. Un’ombra che non va bene. Dice.
Abbassa di un tono la voce, sta godendo, ha il controllo, controllo pieno; credo ce l’abbia anche duro, è tutto teso, tutto pronto. Lo colgo dai movimenti delle mani, dal sorriso impercettibile che accompagna ogni parola e dalla pelle del viso tirata.
Un’ombra? Dico.
A me C. una volta ha detto così, mentre mangiavamo sotto casa sua in macchina: tu hai un’ombra di tristezza che saltella da un occhio all’altro e poi scappa via, sono sicura che sia una parte infinitesimale del tuo essere luminoso ma prima o poi dovrai acchiapparla.
Io ho continuato a mangiare il panino che era mi pare tonno e pomodorini.
Credo mi ami. Io le ho creduto quella volta, è la prima volta che incontro una donna così complessa. L’ho trovata un’osservazione affascinante ma tanto non riesco ad afferrarla. E ora ’sto punteruolo se ne esce con un’ombra.
Il dito non è rotto, niente di che è solo una forte contusione ma dalla lastra risulta sul mignolo un’ombra, come scavata, potrebbe purtroppo essere un “condroma”. Dice.
Un tumore benigno, dovrebbe essere, si mangia l’osso. Bene fare una biopsia per scongiurare. Dice poi.
Le parole sono sassi grigi, neri, colorati, tu puoi costruirci una casa o ucciderci qualcuno come in una sassaiola. Mi siedo.
Le prescrivo le analisi, andiamo a vedere cosa c’è nel mignolo, questa massa che fa ombra non mi piace.
Un uomo non conosce bene il suo corpo come una donna, credo. Un uomo è un po’ come un legno che al massimo si espande o si restringe in autunno per la pioggia, una donna invece è tipo un giardino fiorito dove è sempre primavera.
Mi tiro i ricci neri, arrotolandoli al dito. Quasi non immaginavo che dentro mi scorresse una vita che scola nel vuoto di un mignolo.
E questo c’entra con l’ombra di cui parla C.? Dico.
Mi scusi? Dice.
Dico, C. mi dice sempre di un’ombra che mi gira dentro. C’entra con questa roba del mignolo? Dico.
Si sente bene? Dice.
No, non credo. Non ci faccia caso. Che devo fare? Dico.
Questa è l’impegnativa, telefoni e prenda appuntamento per l’operazioncina al dito così interveniamo e capiamo se bisogna andare oltre o meno.
Apre un cassetto e tira fuori un’agenda. Io non capisco e penso che se avessi colto prima l’ombra di cui parlava C., forse, ma dico forse, ora il mignolo sarebbe intatto. Magari quell’ombra mi sta mangiando da dentro, magari ho altri pezzi d’osso svuotati. Perché, penso, visto che non sono un medico, quel vuoto mi divorerà e morirò.
Mi alzo, prendo i fogli. Lo guardo, lui guarda altri fogli sulla scrivania.
Arrivederci. Dice.
Arrivederci, dico.
Esco in corsia, la macchia di sangue è ancora lì sulle mattonelle. Sento come un vuoto, un palloncino gonfiarsi dal mignolo dentro di me fino a intasarmi tutto. Allungo una mano per toccare il centro della macchia, ci spingo il dito. Così la pelle la assorbe, entra nelle ossa e mi scorre dentro e gira fino al mignolo e tutto si sistema.
Vedo entrare nel corridoio C. le spalle appena ricurve, come sempre, i pesi del suo spirito l’hanno sempre piegata un po’. Levo il dito dalla macchia di sangue, guardo C., lei mi osserva e penso veda fuggire via l’ombra dai miei occhi, muove la testa di lato come un gatto, mentre il palloncino dentro di me esplode e ne segue un silenzio completo, universale.
C. mi accarezza e mi abbraccia e mi dice dimmi.
Io resto in silenzio.
Lei mi stringe. Io resto in silenzio. Mi prende la testa con le mani, come se la raccogliesse.
Hai trovato un altro accesso al vuoto, vero? Dice.
Io resto in silenzio.
Ogni vuoto esiste solo se c’è qualcosa intorno, Andrea. Imparerai a colmarti.
Ho la lastra che si scongela in mano, la brina bianca copre il mignolo, la mano è intatta e il dito non è mai stato operato perché non ce ne era bisogno.
Quel medico l’ho odiato per anni, fu scorretto, mise il suo buio nelle parole trovando spazio dentro di me. Eppure lui non c’entra. Perché non esiste che la responsabilità della consapevolezza di sé, della percezione di sé, venga messa nelle mani di un’altra persona. Le sue parole, che quel giorno mi sconcertarono, oggi non avrebbero più vuoti invisibili su cui germogliare.
Intorno adesso c’è sempre più carne e, forse, più anima.
Con C. è andata come è andata, il bene che mi ha fatto è superiore al male che poi è stato fatto, ma è un’altra storia e ora devo richiudere il freezer. Appoggio la lastra, c’ho il fuoco che scalda tutti i vuoti ed è solo mio, ci sono alcuni viaggi che è necessario fare da soli e prima ci si mette al caldo delle proprie forze, prima si parte.
La percezione di sé spesso passa attraverso le parole degli altri, nel bene e nel male, è mai capitato anche a te? Se vuoi, raccontalo qui!
Qui puoi condividere questo ricordo con il tuo mondo.
In queste due settimane, ho trasformato in gelato Loco Mexicano e l’Accorciabro.
E la copertina è del super Luigi Annibaldi!
♥️