Sottozero scongela ricordi, racconti o tutto ciò che è tenuto lontano dall’essere raccontato.
Questa volta un racconto di una rabbia che non sazia mai.
Il prete mi guarda e lo stomaco mi si apre tutto insieme, come un sacco lacerato da una lama sottile.
Dio ci vede tutti, ovunque siamo. Dice.
Dio non vede tutti. La smettesse.
Sono digiuno dal giorno dell’incidente, l’altro ieri. Marco è morto in moto contro un’auto. Il mio stomaco adesso si sta spalancando per colpa di questo pretino ridicolo. È la prima volta dopo l’altro ieri che ho fame, proprio ora che la bara è in uscita dalla chiesa mi viene questo vuoto allo stomaco. Non c’è più niente da attendere, le persone sanno che è finita, piangono e sono piegate dal dolore e io resto in un angolo a guardare tutti, per capire, per osservarli. Il parroco insiste che Dio vede tutto e tutto sa e mentre commiata i partecipanti e li guarda ma più degli altri guarda me, non so perché. Mi fa venire tanta tanta fame.
Sei stato tu. E tu. E anche tu. Dice.
Indica me per primo, il corpo mi si scalda, la faccia si arrossa, poi gli altri.
Tu. Sì tu e anche tu. Siamo tutti aguzzini e siamo tutti Marco, sono le scelte che facciamo che ci rendono migliori o peggiori e l’uomo che se ne è andato senza pietà lasciando solo Marco, sa in cuor suo il male che ha commesso. Dice.
Lo stomaco tira come se scongiurasse di ingerire qualcosa, le gengive mi grondano di saliva. Marco era passato piano con il verde, era sera, notte, non si vedeva nulla o poco, la sua moto era nera, poi la pioggia. Quando dalla strada laterale la macchina lo ha centrato, senza poi fermarsi, lui è volato via.
Nessuno oltre il guidatore lo ha visto. Neanche Dio.
Il corpo è rimasto sull’asfalto un’ora, hanno detto. È morto subito, altri hanno aggiunto.
Prima di finire la messa preghiamo anche per lui, l’anima che è scappata dopo aver ucciso, preghiamo per lui, anima senza coraggio, anima persa; Dio ti sente, sei qui, sei ovunque con il tuo peccato. Preghiamo che trovi quel senso di giusto, almeno nel cuore. Dio sa. Amen. Dice.
Più parla più ho fame, fame ancestrale. Ho un conato acido. Che cazzo ne sa del coraggio un prete?
Guardo le arcate della chiesa, i vetri delle finestre di colori opachi verde, blu, giallo e rosso non filtrano luce, mi piego, è come se della pece mi avesse incollato lo stomaco in questi due giorni e ora è venuto tutto via, un crocifisso tra due finestre, sofferente, mi guarda e lo stomaco gorgoglia.
Chissà se Gesù li tiene davvero tutti sulle spalle i peccati dell’uomo.
Ma che sono venuto a fare? Devo mangiare, devo riempire questo vuoto. Una fame primitiva, tutto istinto ora che il cadavere finisce sotto terra e questo prete rotondo pretende di guardarmi negli occhi e di dirmi che io ho ucciso Marco.
Partirò domani, per sempre.
E non so se è normale, non so se le persone normali hanno fame in momenti come questo; era giovane come me Marco e ora sfila dentro una cassa di legno portato da quattro ragazzi grossi, forse amici e io mi trovo nel chiostro con un cane invisibile che mi morde lo stomaco e non so controllarlo perché la rabbia e la paura coprono tutto, riempiono ma non saziano e devo saziarmi o il vuoto mi disintegrerà come si è disintegrato il casco di Marco. Il parroco mi guarda. Sono l’unico a distanza, immobile.
Andate in pace. Dice.
Amen. Dicono.
Il parroco distoglie lo sguardo e sfila nella tunica verso la sagrestia. Grasso, gravido di parole di Dio.
Preghiamo per lui, per quell’anima senza coraggio che è un’anima persa, Dio la sente, è qui, è ovunque con il suo peccato. Ha detto.
Che ne sa che è qui? Dio, glielo hai detto tu?
Ha la faccia da maiale. Quasi ce lo vedo con una mela in bocca. Il doppio mento. Dio il doppio mento. Una spalla di maiale sembra. Lo seguo.
È grasso con le gambe magre, costoletta di abbacchio voglio chiamarlo.
Hey costoletta! Come butta? Dico.
Lo immagino solo, non lo dico. Però sbavo.
Quelle cosce. Gli sono dietro. Due gambette scheletriche su questo ventre dilatato. E ho una fame che me lo mangerei il verro con tutto il disegno di Dio per Marco, per me, per tutti.
Altro passo in avanti, l’olfatto me lo serve sotto il naso fino dentro ai polmoni: incenso, colonia e grasso. Se fa un altro passo così invitante, così molle, Dio, lo assaggio. Si muove ondulando la ciambella intorno che lo accompagna.
Scatto.
Gli do un morso sotto al bicipite, stringo i denti e muovo la lingua dove la pelle dondola come la coscia di un pollo ben cotta tirata su dalla griglia, grondante.
Il sangue è tiepido e mi scalda la bocca. Lui strilla. Che strilla?
Che ti strilli? Dico.
Che tanto hai Dio che ti ridisegna il corpo dopo morto e ti leva il grasso superfluo e ti leva tutte le ferite e tutti i peccati vero?
La fame e i peccati a me chi li leva? Dico.
Marco avrà strillato? Avrà sentito il cranio aprirsi e la memoria gocciolare via sull’asfalto? Chiudo la bocca. Avrà visto?
Stringo i denti.
Inizia a sapere di paura il parroco, la pelle acre sa un po’ di lime e sabbia. Con la mia mano sulla bocca nessuno lo sente gridare. Quasi mi eccito ma non è una cosa erotica è proprio fame è proprio godimento di un pasto così ricco. Ma ho fame, tanta fame e Marco è dipinto ormai in un disegno divino che questo maiale conosce grazie al suo Dio, quindi lui sa. Lui sa chi è stato, il maiale deve morire e acquietarmi questa fame.
La pelle viene via. La sfilaccio come fosse bollito anche se è cruda e viva. Tiro indietro il collo, alzo un po’ la mano e il grido del parroco si sente fino in cielo, forse Dio lo sente anche attraverso la mia mano che prova a tappargli di nuovo la bocca e forse pure Marco l’ha sentito ma no, Dio sicuro no perché tanto sta disegnando, tanto lui sa, vero? Io non l’ho sentito il grido di Marco che moriva, la macchina è sfrecciata via e lui è rimasto sull’asfalto in silenzio a morire di notte da solo.
Non l’ha visto Dio, non l’ha visto nessuno, non l’hanno visto le finestre affacciate sulla strada, non l’ha visto nessun passante perché non c’erano passanti.
Forse non è morto proprio sul colpo dicono altri, o forse sì e a me la fame aumenta.
Lo afferro per le gambe. Lui cade e la tunica si alza, i testicoli corredano un lembetto di carne, gli sono sopra. È davvero tanto, tutto. Un altro morso dritto sull’occhio, liquido, un uovo, un occhio di bue, un occhio che sembrava di vetro mentre parlava di Marco e di resurrezione dell’anima, un vetrino dentro una palpebra socchiusa e guarda un po’ io me lo succhio come un’ostrica. Poi succhio l’altro. Ci metto dentro la lingua, devo arrivare al cervello, ci sarà Dio lì dentro? Così smette di guardare.
Dove si nasconde Dio, distratto, nel cervello o nel cuore? Dico.
E tu, Dio, mi hai visto? Hai visto cosa ho fatto? Il tuo occhio che tutto vede attraverso gli occhi dei tuoi discepoli mi ha visto? Dico.
Il parroco è svenuto, la mia bocca è impastata di sangue e carne.
Mmh, tutto molliccio qui dentro la cavità oculare. Dico.
Tiro fuori la lingua, mordo la testa. I denti spingono sulle gengive tanto da procurarmi dolore.
Marco a terra ha sbattuto più volte la testa che si è aperta, il casco si è aperto come un cocomero con tutto il teschio. Guardo il segno definito dei miei denti, poi mordo di nuovo e finalmente ecco, il terzo morso spezza il cranio e mi scheggia un dente. Bel rumore. Dente ossa, dente ossa, dente ossa.
Fuoriesce questo cervello che se avessi una cannuccia lo succhierei in un istante e terrei per me, solo per me, quello che ha visto l’occhio di Dio. Dovrebbe esserci la verità di Dio dentro un prete, no?
Eccola che cola sul palato lenta, corposa, dolciastra. Il parroco ha gridato poco, è svenuto subito, morto. Chissà se Marco ha smesso subito di sperare, chissà se in ambulanza mi ha pensato, mi ha maledetto senza conoscermi, mi ha implorato di fermarmi ad aiutarlo e magari salvarlo. Chissà se mi ha visto alla guida. Chissà se morendo poi mi ha perdonato.
No, nessuno mi ha visto, neanche Marco.
Alzo la bocca dal cervello per sussurrare alla poltiglia che resta dell’orecchio del prete.
Io non volevo. È stato un incidente, lo giuro. Dico.
Dio mi senti? Dico.
Mi senti? Dico.
La pelle delle mani non si vede più tanto è ricoperta di sangue, intorno i vetri opachi delle finestre sulle arcate filtrano ora una luce lieve, rimetto giù la testa.
Più del dolore, può la fame.
Wow 😧 ho sentito tutti gli odori del racconto e visto gli organi uno per uno!
Bravo 👏
A un certo punto mi veniva da chiudere gli occhi come se lo vedessi su un grande schermo!😨👏👏👏