Sottozero scongela ricordi, racconti o tutto ciò che è tenuto lontano dall’essere raccontato.
Il cibo, si sa, ha valori nascosti che la noia dell’uomo riesce a tirare fuori con violenza. E questa puntata ne è la testimonianza nuda e cruda.
Se gli umani vogliono, gli umani ottengono. Sembra però che questa situazione qui sia un lusso, diversa dai classici mise en place negli “all you can eat”. Dovrei sentirmi sollevato.
Qui la pelle sostituisce la ceramica, gli odori alcolici del disinfettante lasciano spazio al sudore, niente effluvi amidosi di riso pulito. Qui c’è il calore del corpo, la pelle, la carne viva, liquidi dolciastri e amarognoli.
Che poi io mi sarei anche accontentato di finire in mezzo agli altri sul classico nastro trasportatore, stretto, un po’ scomodo ma bello in vista che gira illuminato dalle luci. Qui invece è buio e l’odore inizia a farsi metallico.
Ma alla fine, dal mare, è un percorso lungo per tutti qualsiasi sia la fine.
Però stare tra questi due molli lembi di pelle calda è una rarità. Si dice.
Che poi c’è un odore importante, ecco. Insisto. Rosa, erbe, forse un poco di metallo, aspro, acre.
Ma che mi lamento a fare?
Che brutto se fossi finito in una confezione di plastica in giro per Roma. Come mio cugino, pressato dentro l’Uramaki che era accanto a me nel freezer del magazzino. Lo hanno preso, infilato all’interno di un contenitore di plastica insieme ad altri cinque come lui, pure con Zenzero mi pare e poi al buio dentro uno zaino.
Finiti tutti smembrati a un incrocio. Un camioncino ha centrato il rider sul monopattino che li trasportava, pare il rider sia morto. L’uramaki con mio cugino dentro e tutti gli altri via fuori dallo zaino sull’asfalto, poi nella spazzatura o chissà dove.
Che spreco. Non so, sono confuso.
Sento il vuoto scuro dietro di me, intravedo luci basse fuori di qui, soffuse. Perché davvero qui è buio anche se non mi hanno infilato dentro dentro. Sento solo il frusciare della pelle che sfrega, il soffio delle gambe che strusciano l’una sull’altra. La chiamano “atmosfera”. È quando gli umani lavorano per creare attesa, non so spiegarlo bene, come quando intorno a me, in mare, l’acqua era immobile e non c’erano correnti prima che uno squalo attaccasse i pesci più piccoli, c’era qualcosa però in acqua subito prima, le alghe immobili, la sabbia appena appena mossa sul fondale, potevi percepirlo sul guscio.
Adesso è tutto morbido e bagnato qui. Il riso che mi ricopre si sta ammorbidendo.
Cos’è? Mi sa che sta vibrando il corpo, tremo anche io. Lei è una donna, ok lo so, ho capito che gli esseri umani sono o uomini o donne.
L’odore di rosa sta sparendo, si fa più forte l’acre ed è tutto sempre più umido.
Mi sento un povero cretino. Io che pensavo a una fine gloriosa. Fermo qui al buio tra due lembi di pelle che dondolano e mi coprono ogni visuale. Che poi, che mi ci metti a fare qui? Proprio qui in mezzo dico, ho la sensazione di essere dove non dovrei.
Aspetta. Le cosce lunghe e muscolose si schiudono.
Poca luce, che bella pelle però. Elegante. Sembra il guscio di quelle conchiglie levigate dalla corrente giù negli abissi dove vivevo. Sento il riso intorno scivolare un po’.
Ai cugini dentro i piccoli Maki sono toccate le tette. Gli uomini sbavano per le tette da quanto ho capito, più sono grosse più i maschi della loro specie sono felici. Li ho visti di sfuggita i Maki mentre lo chef, sì ormai so anche cos’è uno chef, mi portava qui sotto e mi adagiava qua con le sue mani corte e larghe dalle unghie spuntate. Posizionati tutti intorno ai capezzoli loro continuavano a rotolare, ce le ha proprio grosse le tette questa qui.
Buffo ne sappia così tanto di come sia il corpo di una donna. Eh. Sono stato pescato nel Mediterraneo. Tutti maschi barbuti i pescatori. Parlavano solo di questo e fissavano un calendario di donne nude. E io questo ho imparato.
Tremo di nuovo. Lei è tutta un fremito adesso. Sembra quando i pesci saltano sconnessi sulla spiaggia, poco prima di morire vibrano e sbattono veloci, sempre più veloci. Perdo pezzetti di riso.
Lo chef la raccontava al commis la morte sulla spiaggia dei pesci, io non ne ho mai visti morire così come ha detto lui però, perché ero in mare.
Ora che le gambe fanno penetrare un poco di luce, intravedo un dito picchiettare sopra di me. Ma non mi sfiora neanche. Picchietta un lembetto di pelle che esce.
E se si sbaglia? Se mi dà una botta e finisco dentro? Dov’è questo lusso? Che poi che vuol dire lusso? Questi umani continuano a ripeterlo.
Già quasi soffoco tra riso, avocado e alga.
Perché proprio qui? Proprio me, qui. Forse per la forma “a cono” del Temaki in cui mi hanno messo. Mi sa perché gli umani si annoiano tanto. Noi mica giochiamo con i resti organici in mare, ci nutriamo.
Devo dire mi ha adagiato con cura, però, lo chef e credo abbia spalmato prima un gel; la donna ridacchiava, la sentivo. Lo chef poi se ne è andato.
Il Temaki è posizionato. La punta del cono un poco dentro, il gambero spunta fuori. Lo abbiamo tenuto intero. Il pezzo forte, come richiesto dal cliente. Ha detto.
Sarei il pezzo forte. Mi ha infilato qui, lei ha fatto un gridolino e ha chiuso le gambe rimaste serrate fino a un istante fa, come se nell’ attesa temesse scivolassi via. Che poi diciamocelo, il gel potevano evitarlo, copre sicuro l’aria salmastra che mi porto dietro.
Ahia! Dico.
Si sta agitando sul serio, il dito va più veloce, molto più veloce e lei si contorce.
Non ci credo. I Gunkan. Quelli che volano a terra sono i Gunkan. Poveracci, spappolati. Questa si sta scaldando troppo, io traballo, devo rimanere fermo o scivolo. Fermo. È sempre più bagnata, inarca la schiena, mi pesa troppo il riso intorno. Guarda te se ci finisco dentro per davvero a questa qua e muoio stritolato. Rischio di essere risucchiato tipo mulinello. Ridacchio, che un po’ fa il solletico e mi si muove l’esoscheletro, le antenne vibrano e mi sa che solleticano la pelle della donna che si contrae.
Meglio se la smetto che se rido vibrano tutti i chicchi di riso e me li perdo.
Ma cosa succede? Dico.
I lembi di pelle mi tengono a malapena, grondano, si schiudono, colano un liquido sempre più denso che arriva dalle pareti del fondo viscoso, sono come le pareti della bocca di una balena. Il riso pesa sempre di più, è tutto bagnato. Ora sono tre le dita che picchiettano, non una, sono velocissime. Strusciano, sfregano anzi, non picchiettano più.
I cugini dentro i Nigiri li vedo scivolare via dalle cosce, non li avevo notati.
Hey mi sentite? Hey ragazzi! Dico.
Pesce da una parte, riso dall’altra, addio anche ai Nigiri. Un grosso faccione con la barba si china e mi torna tutto in ombra per un attimo. Vedo il mento, poi sento lo schioccare di un bacio, il gorgoglio del succhiare la pelle e intravedo la lingua scivolare sulla gamba della donna. È un uomo, si prende in bocca un Nigiri, l’ultimo ancora in bilico.
Gli altri giù, smembrati, a terra. Io sono in bilico ormai. Non reggo.
Si contrae tutto intorno a me. La pelle della gamba bagnata dalla saliva dell’uomo si piega, lui sputa sul lembetto di pelle e su di me due volte, poi, di nuovo con le mani, lo agita velocissimo.
Si contrae tutto, vacillo, poi sento una morsa.
I due lembi di pelle che mi avvolgono premono sul riso, le pareti si stringono, mi sembra di tornare in mare quando le correnti mi trascinavano giù, giù e giù. Le dita sopra di me sincopate non si fermano, a questa tipa si stringono i muscoli come tentacoli di un polipo.
Sembra la pressione degli abissi da dove vengo, che nostalgia. Però, in mare, la pressione poi ti rigetta. Spero.
Non ci credo. È come a casa. Vibro in quel momento in cui il mare ti fa quella risacca, ti culla con violenza e poi arriva un’onda potente e voli su poi giù nell’acqua profonda.
Mamma mia. Santo Tritone. Il getto è potentissimo non è come le onde. Ora ho capito perché sono proprio qui. Non mi sta risucchiando. Come in mare. Volo via spinto da uno spruzzo, via nel vuoto.
Sto volando! Dico.
I chicchi si sfaldano, si mischiano agli schizzi, l’alga scivola sul fiotto e io continuo il volo su questo liquido che non sa di mare ma è pungente. Roteando nel getto, intravedo la mano che si muove sul lembetto di pelle ormai violaceo, così veloce da non distinguere più le dita. In aria seguo ancora l’eruzione che zampilla intermittente. La natura è meravigliosa, sono di nuovo a casa?
Ma subito perdo velocità, il sapore è acre. Non sono a casa. Non ci sono abissi in cui tornare per essere cullati di nuovo. Non c’è mare.
Mi spezzo la piccola coda sulla gomma rigida di un telefono puntato su di me.
L’odore pungente del liquido che mi ha accompagnato è ovunque, sento ridere un uomo.
Brava. Che roba! Dice.
Lascio filamenti viscosi sul telefono, la testa pesa e scivolo giù. Gli umani sono così annoiati che non mi hanno nemmeno voluto mangiare.
Wow!👏
♥️