Siete i benvenuti voi pronti al freddo, voi che leggete.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto, copritevi. Metto di nuovo le mani dentro, è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori la prima cosa che capita in superficie e mi fredda le mani.
Vediamo di metterla a scongelare.
L’unica cosa che mi divertiva dei boy scout era il campo estivo. C’era quel senso di immersione nella natura lontano dalle famiglie, un accenno di libertà che cercava di venir su dalla nostalgia di casa. Mi sembrava che tutta quella condivisione mi permettesse di sentirmi meno solo. Così si scandivano le giornate tra passeggiate, cucina, giochi di gruppo e storie.
Passavamo la settimana vicino Roma, a Bassano Romano. Avevo undici anni e c’era questa attività in cui ci mettevamo in cerchio, circa venti ragazzini, seduti sulla terra arrostita, in cui tutti aspettavano di condividere pensieri o desideri scrivendo un bigliettino a qualcuno del gruppo. Io volevo scrivere a lei: Chiara.
Era la prima volta che avevo paura, non di un mostro, ma di qualcosa di bello. Nel senso che, se la guardavo, pensavo che forse avrei dovuto dimostrarle di non avere paura e che riuscirci era la prova più enorme d’amore che potessi darle. Non mi sembrava ricambiasse. Però a tratti mi sembrava che, quando guardavo altrove, lei guardava me.
Io stavo sempre vicino ai miei amici. Chiara era qualche posto dopo di me. Aveva gli occhi scavati e muoveva le mani al ritmo della musica di De Gregori, La donna cannone. Le unghie mi sembravano smangiucchiate, le mani nodose, socchiudeva gli occhi lasciando trascinare dalla melodia tutto il suo corpo esile. Aveva un colorito opaco e gli occhi scuri. La pelle, illuminata dal sole, si perdeva nel viola sotto le palpebre che sembravano dipinte da un acquerello.
Le avrei voluto scrivere così tanto che lo confessai a un mio amico, Franco. Ma ero timido. E pensavo che lei fosse troppo bella per me e poi non l’avevo mai scritta una lettera a una femmina. Il capo scout, un tipo basso con i capelli arrotolati in lunghi dread, girava all’interno del cerchio con un grosso pallone bucato che traboccava dei bigliettini scritti nel pomeriggio. Ognuno di noi aveva diritto a scrivere una sola lettera.
Io ero pronto, avevo scritto la mia.
Avevo scritto ai gemelli Michele e Nicola, i miei amici più cari. Gli avevo scritto che erano due bravi amici, che gli volevo bene e speravo di passare l’estate con loro, almeno ancora per un po’. Però guardavo Chiara e poi uno dei capi scout tirò fuori un biglietto per me.
Ciao Andrea, diceva il biglietto, alle 17 prima della merenda, aspettami sulla stradina che porta qui al rifugio. Devo dirti una cosa. Chiara”.
Mi guardai intorno, mi guardava qualcuno? Franco? Michele? Nicola? Chiara no. Sentivo la bocca secca. Ma cosa avrei potuto dirle? Che era bellissima e che le avrei dato un bacio. Allora era vero che ogni tanto mi guardava. Ma si chiedono i baci? Glielo avrei dato e basta.
Così ruppero il cerchio alla fine del giro. Franco continuava a guardarmi.
Dentro al rifugio c’era un piccolo bagno con un cartellone su cui disegnare fiorellini, per contare quante volte andava ognuno di noi.
Guardai l’orologio subito sopra, erano le 16:30. Alla destra del tabellone c’era uno specchio, per la prima volta mi guardai immaginando cosa potesse pensare una ragazza di me. Non le sarei mai piaciuto così bassino, con la testa grande e la faccia triste. Sorrisi, ma mi venne la solita smorfia a metà tra sorriso e vuoto.
Misi le mani sotto l’acqua fredda. Per un istante mi accorsi di avere la pelle in fiamme e il viso paonazzo, me ne accorsi solo con l’acqua che, scorrendo, smorzava il bollore. Mossi le mani per schizzare via l’acqua dalla pelle e presi di nuovo il biglietto. Spalancai gli occhi e mi sentivo di nuovo tutto rosso. Con le mani umide lasciai qualche impronta sulla carta, piegai il bigliettino e lo rimisi in tasca. Mi guardai di nuovo allo specchio, abbassandomi un paio di capelli dritti.
Le avrei dato un bacio, piano, dovevo stupirla. No, niente bacio. Ci avrei parlato un po’. Guardai l’ora, le 16:50 e sentivo qualcuno fuori dal bagno in attesa. Vado, dissi allo specchio.
Fuori dal bagno sentivo di nuovo tutti i bollori sulla faccia.
Era sempre così: quando mi concentravo o quando ero in difficoltà, le guance diventavano rosse. Che poi succede ancora oggi.
Camminando, mi aggiustai la camicia e i pantaloncini, avevo le gambe magroline. Immaginai che magari non le sarebbero piaciute. Avrei dovuto cambiare pantaloni, così mi fermai in mezzo al prato fuori dal rifugio. Pensavo se tornare indietro o meno ma avrei fatto tardi e se ne sarebbe andata.
Ripartii giù per il sentiero fino alla stradina dove avevamo appuntamento, proprio dove iniziava la salita per il rifugio. Mi chiedevo da dove sarebbe arrivata, non l’avevo più vista dopo il gioco dei biglietti. Forse si stava cambiando.
La strada era sterrata, da un lato si vedeva un po’ di campagna sottostante, brulla e secca, dall’altro solo rocce. Appoggiai una gamba su una pietra come faceva Fonzie, ma mi sembrò una posizione forzata: tornai con tutti e due i piedi a terra e incrociai le braccia. Ma non ero comodo. Per terra c’era una margherita, la notai tra la polvere. Gliela regalo. Sì, era un bel modo di sciogliere quei primi momenti di sicuro imbarazzo, quando le parole escono confuse e lo sguardo schizza ovunque, almeno così avevo visto fare nei film. Mamma mi diceva di non strapparli i fiori, ma boh, era un gesto carino regalarlo. Tutti li regalano. Fui costretto a portare un mazzetto di fiori quando conobbi la compagna di mio padre, mesi prima. Feci un passo in avanti e strappai la margherita. Guardai su e giù per la strada ma niente.
Mi appoggiai di nuovo alle rocce, giocavo con il fiore tra le mani.
Tieni, Chiara, per te. Tieni. Oppure, magari, ti ho preso questo contravvenendo alle regole di mia mamma di non cogliere fiori, come farebbe un vero pirata. Uhm, no.
Dopo un po’ che non arrivava nessuno, iniziai a camminare avanti e indietro. In silenzio, non mi andava più di fare prove, sarà quel che sarà.
Non sapevo calcolare il tempo che scorreva guardando la posizione del sole, come sapevano fare i capi scout, ma ebbi la sensazione che la luce si stesse affievolendo. Forse Chiara era stata fermata per qualche attività. Mi sedetti a terra. La margherita aveva perso un paio di petali, forse giocarci l’aveva rovinata. Eh sì, la luce si stava abbassando. E avremmo dovuto preparare la tavolata per la cena. La parte brulla della campagna sembrava un po’ d’oro e bronzo e mi piaceva. Guardai di nuovo su e giù, ma Chiara non si vedeva da nessuna parte.
Mi chinai e poggiai la margherita a terra, di fianco. Rimase là nella polvere e immaginai che l’indomani l’avrei trovata raggrinzita e appassita. Mi girai e tornai al rifugio.
Camminavo piano mentre il sole colorava di arancione scuro il prato. Intravidi Chiara seduta insieme a Franco e altri ragazzini, era intenta a raccontare qualcosa che non capii, tutti ridevano. Inspirai e, da lì in poi, con loro feci come se non fosse accaduto nulla. Quello era l’amore, estremo entusiasmo per nulla.
Come è stato, se ti è mai successo, il vuoto di un desiderio mai avverato?
Ora, però, quel biglietto ce l’ho qui. Ci vedo ancora le mie impronte umide. Non ho mai saputo se fu lei a farmi quello scherzo o i miei amici. So però che molti giorni successivi furono brutti, perché da quel momento e per tanto tempo a venire ho agito sempre per evitare un’altra delusione d’amore. E questo non l’ho pagato solo io, ma chiunque mi si è avvicinato.
Infatti il nulla che segue il desiderio è il mio terrore più grande ancora oggi.
Guardare questo bigliettino scongelarsi mi ricorda che anche il vuoto ha una sua consistenza e che si può sciogliere e lasciar scorrere via.
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Quel fiore prima fresco e pieno d'amore e poi secco e nella polvere è una bellissima metafora. È che a quell'età le aspettative sono alte e mi hai fatto rivivere quelle emozioni che spesso ho provato.
Sono sempre più contenta di leggerti!
C'è una delicatezza infinita in quello che hai scritto, hai descritto benissimo come ci si sente anche da adulti di fronte all'amore. Stupendo, davvero. Sono felice di seguirti!