Oggi scongelo un coltello di quelli con la lama lucente e appuntita che tagliano la carne come burro.
Lo scrittore Edgar Allan Poe pensava questo circa il suicidio: “Non c'è in natura una passione più diabolicamente impaziente di quella di colui che, tremando sull'orlo di un precipizio, medita di gettarvisi.”
Dovresti ucciderti, mi hai detto.
In effetti ho un coltello in mano. La lama è in bilico sul mio mignolo ma non credo tu voglia davvero io la usi. L’ appoggio sul tavolo con la punta verso di me.
Ci hai pensato in passato, lo so. Dici.
Ho un peso sul petto e guardo oltre il tuo viso, c’è un rudere fuori dalla finestra e la luna e in bocca ho il tuo sapore.
Quelli consapevoli di essere vivi, almeno una volta nell’arco della loro esistenza, hanno pensato al suicidio. Dico.
Ti sfili la vestaglia e resti nuda, se quel rudere ha impiegato secoli a ridursi così, il tuo corpo mi restituisce un’idea di eternità.
Guardo il coltello. Vicino c’è la mia tazza di caffè americano.
Rivestiti, smettila. Dico.
Ti avvicini.
Hai due nei sulla pancia e uno sull’inguine, minuscoli ma li vedo.
C’è una forma di amore che corrisponde allo sporgersi per guardare se oltre la pelle c’è la morte. È da disgraziati eh, ma è come il tuo corpo nudo con un rudere dietro.
La vita racchiude la morte. Dici.
Tu vuoi io mi tolga la vita per poterti amare per sempre. Dico.
Sorridi.
Non è così. Tu sei vuoto Andrea, sei un mucchio di riflessi. Così, da morto, avresti consistenza. Dici.
Intorno a noi la stanza gira su muri che assorbono e riflettono le luci fredde del lampadario, tipo obitorio. Mi avvicino al coltello, tu guardi la lama, io allungo la mano ma supero l’arma e prendo la tazza di caffè americano.
Nella maggior parte dei casi, gli amori malati finiscono con un qualcosa che sa di morte, se proprio non è morte fisica, si recide qualcosa che non sarà mai più.
Il fatto è che ti cercavo negli sguardi di sconosciuti anche quando non ti conoscevo ancora. Dico.
Il caffè mi scotta le labbra, lo sorseggio per non ustionarmi, è intenso e quando lo ingoio le pupille mi si dilatano appena.
Quindi cosa aspetti? Dai. Fallo. Dici.
Mi potrei arrendere, ma se mi tolgo ora la vita darei un dispiacere troppo grande a chi resta, non posso farlo. Mica per me, per loro. Dico.
Sì che puoi. Passerà la rabbia e ti piangeranno e finalmente avrai un senso.
Io voglio andarmene, non dovrei essere qui. Dico.
Se ti togli la vita adesso, la gente potrà dire che sei stato un uomo di grandi passioni e che eri tanto bravo e ti piangeranno e ti ricorderanno. Esiste un modo più potente di essere visto?
È una cazzata, non è da egocentrici, è da disperati.1 Dico. È che io non posso fare a meno di fare quello che tu mi dici, ma amare mica può significare coltivare il desiderio di morire.
Oh sì invece, che vivi a fare sennò? Dici.
Non mi ero accorto che hai preso tu il coltello, me lo porgi allungando le mani, per farlo stringi le braccia sul seno nudo che in questo modo sembra ancora più grosso.
Tieni. Dici. E ridi. Hai i denti bianchi e il respiro freddo.
Prendo il coltello e il manico è caldo. Lo stringo, mi stai caricando come un giocherello.
Ti punto la lama sul petto.
Tu mi guardi.
Saresti capace di farlo Andrea, io lo so. Ma io non posso morire. Dici.
Muovo la lama. Un uomo non può uccidere una donna è inconcepibile.
Giro il coltello verso di me, punto la lama sul mio torace.
Chi pensa al suicidio non è debole. Ma per commetterlo deve esserci qualcosa o qualcuno che ti spinge, che dia l’input, anche fosse la morte stessa, o il vuoto, ma comunque qualcuno.
Ti guardo, hai un po’ di grasso accumulato sui fianchi, ti tocchi la pancia e le cosce e mi guardi a tua volta. Il coltello, lama compresa, è lungo quanto il mio avambraccio.
Non avere paura, lo desideri da sempre.2 Dici.
Non è vero. Dico.
Spingo e appena la punta penetra a sufficienza tiro giù come se dovessi far scorrere una chiusura lampo. La pelle si apre.
Hai visto? Dici.
Forse avevi ragione. Dico.
Continua. Dici.
La lama apre lo sterno e muovo il braccio per aprire un varco, l’osso scricchiola e si spacca come il guscio di un cocomero.
È come pensavo, Andrea. Dici.
Fa freddo per essere primavera, il caffè ha scaldato per poco la stanza ma oltre l’aroma non è rimasto altro e tu sei nuda e io non sto sanguinando.
La lama scorre fino alla pancia tagliando pelle e ossa, ma null’altro.
Visto? Hai visto Andrea? Non c’è niente. Dici.
Ma come è possibile? Dico.
Abbasso la testa, ho il petto lacerato e le ossa rotte, aperte; do qualche coltellata forte sotto al collo fino giù, verso l’inguine, poi tiro di nuovo su il coltello e lo lascio cadere. Tu lo raccogli, lo lecchi e lo metti vicino alla tazza di caffè americano.
Io indietreggio, ho il torace completamente aperto e dentro non c’è nulla, un incavo vuoto.
Te lo avevo detto, questo sei tu.
Con entrambe le mani prendo i lembi di pelle e le ossa aperte e strappo; il rumore non so definirlo ma è come cartone che struscia sulla ghiaia e tu ti avvicini.
Me lo aspettavo. Mi indichi. Non c’è amore, non c’è talento, non c’è desiderio, non c’è verità. Non c’è niente. Dici.
Io sono davanti a te e non riesco più a indietreggiare e vorrei andare via, questo non è ciò che voglio.
Tu muovi le labbra e accenni un sorriso.
Guardo la voragine sul petto, sfioro i lembi di pelle asciutta, dentro è come l’interno di una scatola vuota.
Tu avanzi.
Amore tra tutti, ho scelto te. Dici.
E sei davanti a me e alzi una gamba come una bambina che scavalca un muretto d’estate per raggiungere la spiaggia ed entri nella voragine, poi alzi l’altra e ti reggi con le mani prima alle mie costole poi dentro di me nella parte alta dove ci sono le clavicole. Io non provo dolore, solo un lieve solletico delle tue mani sull’ interno del mio collo.
Sento le dita scorrere e prendere i lembi di pelle e le ossa rivolte verso l’esterno e le tiri verso di te da dentro.
Mi accascio, prima in ginocchio, poi mi sdraio mentre tu, da dentro, richiudi tutto.
Addio. Dico.
Buonanotte, dici. Mentre risuoni dentro di me come la fine del mondo.
Qui puoi condividere questo “coltello” con chi vuoi, con chi ne ha bisogno, con chi credi possa prendere spunto.
Come sempre ti lascio un ricordo caldo delle ultime due settimane, bello o brutto che sia.
Qualche tempo fa guidavo veloce su una larga via verso casa.
È sera, c’è traffico e chiacchiero. Quando a un certo punto un’ombra scatta dal marciapiede diversi metri davanti a me, la vedo di sfuggita e poi sento un tonfo. Una macchina frena, poi un’altra davanti a me. Altre schivano l’ombra che adesso salta e balla come un pupazzo rotto in mezzo alla strada. Le macchine scorrono, suonano, si forma il traffico e ora tocca a me passare e capire.
Ho i fari puntati su un gatto che è stato investito e salta come una molla, è completamente sconnesso; la gente guarda e supera, tutti se ne vanno, alcuni addirittura corrono via sgommando. La macchina che l’ha investito non se ne deve essere neanche accorta, ma quelle subito dietro si, si allargano alla sua destra e alla sua sinistra.
Io giro il volante e mi fermo. Scendo in mezzo alla strada e vedo gli occhi di almeno dieci macchine illuminarmi, sento frenare e suonare. Mi giro, c’è il gatto in preda alle convulsioni che ancora salta sui fianchi nel mezzo della strada.
Respiro.
Mi levo la camicia perché non so cosa altro fare, guardo Domitilla in macchina che mi guarda pietrificata e io mi sento male, ma prendo la camicia e mi avvicino al gatto che salta come un pesce. Appena lo cingo si calma. Mi guarda e ha un rivolo di sangue dalla bocca e sa che sta per morire. Però si è calmato. E penso che la morte sia una cosa enorme ma comunque non più grande della vita, così lo arrotolo per riscaldarlo e penso che morirà, almeno non da solo o schiacciato di nuovo e di nuovo e ancora da qualche auto. Alcune macchine mi superano, un paio accostano. Mi alzo e sento una donna gridarmi coglione levati, io la guardo e penso che se potessi vorrei ci fosse lei al posto del gatto. È un pensiero che visualizzo e provo piacere ma mi spaventa perché è un pensiero orribile, ma cosa è orribile davvero?
Stringo il gatto, mi alzo verso la macchina e Domitilla piange e io non so che fare ma faccio e lei mi prende una grossa busta di Ikea in cui mettiamo la spesa e adagio il gatto avvolto nella mia camicia dentro la busta di Ikea sui sedili posteriori.
Dimmi l’indirizzo di quella clinica a San Giovanni. Dico.
Lei guarda, ha il volto pieno di lacrime e tutto dentro di me vorrebbe non vederla piangere e mi punge la rabbia solita del non saper trovare un posto, dentro di me, alla fragilità femminile.
Faccio il giro e salgo in macchina, un ragazzo mi si avvicina e poi un signore. Il ragazzo mi guarda.
Ti voglio solo stringere la mano. Dice.
Il signore invece si limita a uno sguardo.
Hai fatto una cosa difficile. Dice.
La verità è che so sempre quale sia la cosa giusta da fare ma normalmente non la faccio, perché nel sistema vita dolore ho una gerarchia sballata, ma non in quello di situazioni simili.
Il ragazzo mi stringe la mano.
Alzo gli occhi, il signore più anziano dal labiale mi dice bravo. Salgo in macchina. Le altre macchine suonano invece di insultarci, o forse suonano perché semplicemente non sanno cosa è successo.
Partiamo.
Il veterinario3 ci riceve, io non ho il coraggio di guardare dentro la busta di Ikea e la passo al dottore, Domitilla piange e ora vorrei solo accudirla e mi sento in colpa e capisco che di solito è lei che prende in mano le situazioni complesse, così l’abbraccio e smette.
Mi appoggio alla porta e poco dopo il dottore esce dalla piccola stanza che odora di disinfettante e che mi mette ansia e ci dice che lo sopprimerà perché i danni sono gravissimi.
Così un po’ mi viene da piangere ma preferisco non farlo, penso che non è morto sull’asfalto, che non è morto da solo. Tiro su col naso, gli occhi si asciugano, le lacrime tornano indietro e tutti i liquidi che dovrebbero uscire fuori colano intorno alla spina dorsale dove si ghiacciano per causarmi mal di schiena i successivi giorni.
La vita è così, ci sono persone capaci di scongelare e piangere in maniera sana e c’è chi, ancora, congela.
Di chi è la copertina? Del super Luigi Annibaldi.
È interessante capire perché non si deve scivolare nell’ovvio.
Questa Onlus sostiene chi non ha solo pensieri, ma chi scivola verso qualcosa da cui non tornare più indietro. Si può anche diventare collaboratori.
Questa è un’ottima clinica a Roma, i dottori sono bravi e capaci e soprattutto umani.
Tostissimo! Una lettura che brucia e congela.❤️
🤗🩷 un episodio che commuove