Siete i benvenuti voi pronti al freddo, voi che leggete.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto, copritevi. Metto di nuovo le mani dentro, è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori la prima cosa che capita in superficie e mi fredda le mani.
Vediamo di metterla a scongelare:
Avevo bussato alla porta un paio di volte. Mi rispose una voce flebile, appena roca. Prego, disse.
L’aria era densa di sudore, il sapere intorno alla professoressa era suddiviso in tomi apparentemente uguali tra loro.
Salve Fassi, sussurrò. Non mi guardava. Così questa professoressa piccola, con una testa grande, attendeva l’ennesimo scansafatiche.
Professoressa, le dissi guardandola, mentre lei aveva la schiena e il collo ricurvi su un fascicolo di compiti. Segnava, come se impugnasse un coltello, stralci rossi, veri solchi su carta. Andava avanti e indietro con la mano e la testa le ciondolava per lo stesso verso del polso.
Per la verifica di latino, dissi, ma mentre parlavo mi scrocchiai due dita.
Lei mi interruppe. Fassi, ti prego. Me lo disse come se, che so, avessi preso e pisciato lì davanti a lei. Ma non mi mangiavo le unghie o non sudavo più del dovuto e non parlavo a macchinetta, era un modo per distrarmi dalla tensione.
Mi scusi, professoressa. A lei penzolava ancora la testa, mi rispose che c’è Fassi?
Ecco, vede, pochi giorni fa è morto mio nonno e domani ci sono i funerali. Lei non alzò lo sguardo. Io continuai, solo che abbiamo la verifica e io devo prendere un voto decente, sa, per il debito che rischio. Posso recuperare il pomeriggio o, magari, dopodomani?
Alzò lo sguardo, scostò gli occhiali, no disse e tuffò di nuovo il corpo e la testa sul tavolo.
Io rimasi in silenzio, volevo scomparire. Dal basso, da quel sistema collo, testa, fascicolo di compiti, tutto era sospeso su un corpo esile e sproporzionato. Poi alzò la testa.
Mi guardava negli occhi, io distolsi lo sguardo, non sarebbe corretto verso i tuoi colleghi, Fassi.
Respirai, provai a guardarla, posso farlo prima? Magari in prima ora e poi esco.
Lei tenne fisso lo sguardo, disse no e tornò nel suo sistema.
Non posso farti fare il compito fuori dall’orario, Fassi. Qua all’Augusto Righi i cognomi non contano.
Io pensai, lo pensavo sempre quando mi collegavano al gelato, anche se in realtà non me lo aveva mai osservato nessuno in modo così diretto, che tutti credessero che la mia fortuna di avere una gelateria enorme e storica mi aprisse le porte del mondo. Non ho mai usato questo a mio vantaggio, anzi, io piuttosto credevo che fosse una vergogna avere qualcosa alle spalle, come se, tanto, tutti pensassero che alla fine avrei fatto quello e che il resto di me fosse tutto superfluo.
Annuii.
Fassi, se sei assente ti becchi il debito eh, lo sai io ti avviso.
Pensai a mio nonno sul letto di ospedale. L’avevo visto una sola volta in quelle settimane, immaginavo mi tenessero un po’ a distanza per proteggermi dalla sofferenza, ma non lo sapevo con certezza.
Quando stava ancora bene andavo da loro la domenica, con mamma. Lui mi ricordava sempre di mangiare piano, a me che finivo il cibo per primo. Diceva di mangiare con calma, di dare un ritmo al pranzo tutti insieme; era molto anziano ed era stato un grande sarto; sentivo di essermelo vissuto molto poco. Ora che se ne era andato, quell’accuratezza nell’osservarmi non ci sarebbe stata mai più.
Annuii di nuovo, ma mi si serrarono gli occhi per un istante: fu un attimo in cui desiderai di farle male, un lampo che congelai subito nel profondo. Mi girai e uscii accostando la porta.
Arrivederci, dissi.
Arrivederci Fassi, condoglianze, disse lei.
Non ho mai più chiesto aiuto, terrorizzato da quel lampo di violenza di pochi istanti. Così ho sviluppato un’attenzione maniacale verso i gesti preludio di rifiuto, per allontanarmi in tempo dentro una cortina di ghiaccio.
Hai mai vissuto un rifiuto che ti ha cambiato il modo di desiderare? Se vuoi puoi scriverlo, così lo scongeliamo.
Ma ora c’è questo foglio di carta bianco, non c’è scritto nulla e inizia a scongelarsi.
Prendo una penna, non sarà un compito di latino che valeva quello che valeva, o il debito che recuperai l’anno successivo, ma su questa carta ormai scongelata posso finalmente scrivere. Le parole non servono più ad alzare un vuoto, ma a dare voce e intenzione ai miei desideri.
Scrivo “Genius” e sottolineo la parola due volte, è il nome della scuola di scrittura che ho fondato insieme a persone che credono in me; mi appunto tutti i piccoli premi che ho iniziato a vincere scrivendo, facendomi aiutare nell’editing delle bozze, penso al romanzo “Papille” che ho finito e qualcuno sta revisionando, perché crede in me. Ho la sensazione di guardare la mia scrittura crescere, come se questo movimento, di oggetto in oggetto, generasse calore capace di sciogliere il ghiaccio.
Se SottoZero ti suona nel gelo di qualche tuo luogo intimo, condividi tutto il freezer dove vuoi tu!
Scongelo un quaderno. Un quadernone con la spirale, a quadretti, aveva la copertina azzurra e c’era scritto sopra, in bianco, DIMENSIONE DANZA. Al liceo lo inzuppavo di inchiostro con penne di tutti i colori, ci appuntavo i tormentoni e le cose divertenti che succedevano in classe e scrivevo tantissimo del ragazzo che mi piaceva, quello della sezione B. Ma proprio con un trasporto, tutte le mie pene d’amore finivano su carta con la penna verde brillantinata e poi il quaderno lo lasciavo sempre sotto il banco: era il mio modo di condividere qualcosa con le mie compagne di classe, quel quaderno non era più una cosa solo mia ma aveva costruito una piccola comunità di ragazze che fra quelle pagine inciuciavano, commentavano le cose che dicevano i prof, si scambiavano segreti e frasi da libri e canzoni, si incoraggiavano prima delle interrogazioni, si suggerivano cosa dire e cosa fare coi ragazzi carini. E poi la mia quotidianità si è riempita di cose tanto più grandi di me che mi riempivano la testa, ero arrabbiata perché la risposta degli adulti a cui chiedevo aiuto era sempre che dovevo portare pazienza e stare buona e piuttosto dare una mano, almeno io. Mi sentivo abbandonata, mi rimaneva soltanto il quaderno a impedirmi di imprigionarmi dentro me stessa, e non sapevo più come dire le cose per non sembrare pazza. Scrivevo meno e abbiamo tutte cominciato a scrivere meno. Ho provato, un paio di volte, non a raccontare fatti brutti che sapevo che avrei dovuto gestire da sola, però ecco, quel quaderno, lo sguardo delle mie amiche, quello era l’unico posto che sentivo come sicuro e lì ho provato, almeno a loro, a chiedere aiuto, senza raccontare nulla che potesse turbare nessuno, portando solo il bisogno di sentirmi protetta, di avere i miei anni insieme a loro e non trenta di più perché questo pretendevano i grandi e contemporaneamente dieci di meno perché io invece così mi sentivo, minuscola e impotente. Forse l’ho fatta male, questa cosa di chiedere aiuto, in un modo troppo criptico, o con troppo trasporto, ma il quaderno ha taciuto e con lui io, non ho più scritto niente per tantissimi anni.
Mi è cambiato il modo di desiderare di sentirmi al sicuro, non lo so più fare, chiedo male aiuto e protezione, sempre con la rabbia di chi sa che tanto non gliene spetta nemmeno un pelino. Adesso il mio quaderno si scongela ma le pagine sono una poltiglia, impossibile scriverci o sfogliarlo, ho un altro quaderno adesso, dove raccolgo le storie degli altri perché io di mio non ho proprio più niente da dire.
Intanto, però, la scuola Genius mi ha ridato le parole: un dono prezioso con cui posso piano piano tornare a raccontare almeno chi incontro, custodirne la vita. E questo spazio che ti stai sistemando è proprio un bel posto dove sedersi un momento e lasciarsi commuovere alla vista di pezzi di vita che riprendono colore dopo essere stati tanto tempo nel ghiaccio.
Io vorrei ringraziarti vivamente per aver messo a fuoco una cosa a cui sto pensando da un po’: come ci si sente a ereditare qualcosa di veramente grande, qualcosa che devi per forza accettare perché è il tuo cognome, perché lo puoi accettare solo tu, perché lo devi accettare, punto e basta? Ora lo so.
E poi aggiungo un’altra piccola cosa: ogni pezzo scongelato non è solo tuo ma anche mio, nostro. È davvero molto bello questo percorso sotto zero che ci stai regalando. Grazie.