Tiro fuori dal freezer un gambero, da scongelare e disarmare.
Come sempre in corsivo troverete l’Ombra.
Mi chiamano sul palco. È il 2014.
Ti ricordi che cretino che eri? Dice.
Mo cretino. Dico.
Sì, insipido, novellino e comunque era il 2013. Dice.
La sala è piena di gente e i condizionatori aumentano il peso dell’aria. Fingo di non far caso alla curiosità che scivola tra le persone mentre cammino, sorrido solo con la bocca. La sala è costellata di immagini degli sponsor; dalla trippa all’acqua naturale alla birra fino alle lenticchie decorticate Orvietane. C’è una luce intensa direzionata sul palco, accecante; a me quella luce riempie, mi attira come una lanterna attira le falene di notte, mi illude di essere visto e mi tiene al caldo. Alzo il viso come fossi su una spiaggia, dritto sotto il sole.
Oh, questa consapevolezza però è di adesso. Al tempo eri tutto tronfio e basta. Dice.
Eh. Dico.
Salgo sul palco.
Benvenuto! Che lo dico a fare?! Sapete tutti che l’azienda artigiana della sua famiglia è tra le più antiche eccellenze d’Italia. Dice.
La donna mi indica e alza il tono di voce sulla parola eccellenza.
Sorrido, solo con la bocca, con gli occhi non riesco.
Questo premio va all’esperienza, quella che va lontano, l’esperienza e l’eccellenza che tu e la tua famiglia portate all’estero attraverso un progetto di franchising in Cina, a Shanghai, dopo il successo in Corea. Scusami, Corea del Sud o Nord?! Dice.
Io resto in silenzio. Come può davvero pensare sia in Corea del Nord? Ma ho la luce che mi scalda e inalo una boccata d’aria.
Del Sud. Dico.
Meraviglia. E ora un negozio in Cina, che spettacolo. Dice.
Si che poi ha chiuso. Dice.
Al tempo non lo potevo immaginare. Dico.
Al tempo non potevi immaginare tante cose. Dice.
Sorrido, la sala è piena e ho la luce in faccia.
Com’è stata la tua esperienza in una metropoli come Shanghai? Così giovane poi. Dice.
La presentatrice indossa un tailleur verde, spilla verde all’altezza del seno ancora sodo, capelli lisci biondi, la voce le parte dalla gola come se il corpo non avesse il tronco e le gambe e i polmoni a incamerare e sputare fuori aria per dare consistenza al suono. Ne esce un effluvio che parte dalla trachea, passa dalla bocca e soffia stridulo verso il pubblico.
Eh, a proposito, dillo come è andata a Shanghai. Racconta che ti sei caricato una ragazza di notte e sei finito in una casa dove l’unico cinese grasso che tu abbia mai visto nella vita stava in mutande davanti alla televisione e con buone probabilità era il padre di lei e lei ti ha preso la mano, tirato, siete passati davanti a lui che non ha battuto ciglio, e ti ha trascinato in camera e poi te lo ricordi sì? Ti ricordi il buco dietro all’armadio da cui siete passati nella stanza nascosta? Racconta dai. Dice.
Non è il caso, oggi mi serve raccontare del premio. Dico.
Ok, ma una cosa non puoi ometterla. Dice.
Cosa? Dico.
Che oggi non saresti andato a ritirare quel premio. Dice.
Assolutamente. Ma al tempo l’ho preso. Dico.
Io non c’ero. Ovvio tu l’abbia dovuto ritirare. Dice.
La gente in sala pende dalle mie labbra, la luce è come se mi rendesse invincibile, mi gonfia il petto e le spalle per sovrastare chi mi ascolta.
È un onore per me essere qui. Shanghai è una città unica, un formicaio di persone operose. Portare l’eccellenza italiana all’estero è una grande eredità che sento mia. Dico.
Mi guardano tutti.
Incredibile come le persone che non si sono sentite e viste durante l’infanzia, passino la vita a cercare conferme per non sentirsi invisibili. Dice.
Ho la pelle calda, tutti mi guardano, parte un applauso, un ragazzo in completo a strisce e cravatta pixelata di gamberetti mi mette in mano una pergamena bianca e rossa con un gambero dalle zampe lunghe e il mio nome sotto.
La presentatrice lo ringrazia e mi guarda.
Perché hai deciso di seguire la strada di famiglia? Dice.
Accenno un sorriso, sempre solo con la bocca. Perché? Non lo so perché si seguono le orme della famiglia.
Te lo dico io. Per il cognome, perché è più facile, per difesa, perché meglio un involucro bello e pronto che niente. Dice.
Per amore del gelato che mi scorre nel sangue. Dico.
Guardo il pubblico che annuisce.
Dio mio che banalità. Anzi no, Dio no, non ci credo. Che banalità Andrea. Dice.
Bellissimo, bravo bravo. Glielo facciamo un applauso? Dice.
La donna mi indica e applaude.
Ringrazio, mi saluta chinandosi appena e le intravedo il seno dalla camicetta ma gli applausi sovrastano tutto, la luce mi avvolge, prendo l’attestato e mi allontano. Scendo dal palco in mezzo alla gente, l’effetto luce si affievolisce, espiro e mi sgonfio, mi gratto il naso. Persone che sanno di me solo il cognome mi accerchiano e parlano, mi dicono che conoscono l’azienda e a me sembra che abbiano tutti un rivoletto bianco di bava ai lati di tutte le loro bocche, mi dicono che si vede che sono appassionato e ho la sensazione di vedermi riflesso in alcuni di loro. Mi lasciano biglietti da visita e alcuni attutiscono la voce con la mano davanti alla bocca quando sussurrano di idee che di certo mi servirebbero.
Che ti aspettavi? Dice.
Stringo mani e tutti mi guardano e io mi sento, esisto, e stringo mani e stringo un mondo che mi salva e mi propone un posto in cui stare.
Fraintendevi. Tu devi prima guardarti in faccia, vederti, sputarti e poi ringraziarmi che io ti sto mostrando un’alternativa. Dice.
Beh calma però, ha valore la storia che eredito. Dico.
E chi dice di no? Per fartela breve, il cognome è stata la tua armatura per anni. Così in affanno nel tentativo di attaccarti a qualche riflesso perdi sentirti vivo da non capire che quelli ti allisciavano ma con una pistola puntata. Ma tu eri intento a costruire il contorno intorno al vuoto. Guarda. Dice.
Mi guardo le mani. Piccoli puntini neri ricoprono la pelle e si fanno trasparenti e vedo il pavimento attraverso la carne, tutto il dorso svanisce e poi il polso e l’avambraccio scompaiono.
Cosa mi stai facendo? Dico.
Ti rivelo. Vedi, io non sono la tua ombra, sono l’Ombra, sono il corpo della tua anima. Tu esisti per volere di ciò che ti riflette, per il consenso si perde la faccia, tutto. E ora che ti è chiaro, non resta nulla. Dice.
Le spalle spariscono. Mi tocco ma a vuoto. Svanisco nei ricordi delle donne che ho ferito, le vedo piangere per altri uomini e odiare qualcun altro, poi via dai ricordi di quella che amo tutta presa ad amare un altro, la vedo che ogni tanto spera lui si gratti il naso ma non può capire perché. Poi il nulla mi porta via il collo e il petto e la bocca e nessuna si ricorda più di me e la mia famiglia sembra vivere altre vite, l’azienda finisce in mano a un Coreano che ne fa un’impresa da centinaia di locali, vedo mia mamma senza figli essere sempre meno contenta della sua vita e mio padre è al mare.
Smettila ti prego. Dico.
Guarda. Dice.
Tutto mi sparisce intorno: polmoni, fegato, occhi. Resta solo il cuore. Vedo mia figlia. Lei si guarda le mani, vedo che negli occhi uguali ai miei ma più profondi cresce la paura. Le sue piccole dita spariscono, se io svanissi del tutto, lei non sarebbe nata.
Ma il mio cuore resta lì a guardarla. Passa qualche minuto, resta, il nulla si ferma anche sulla sua pelle.
Non fosse per lei, il cuore rimasto me lo mangerei tipo pasto. Dice
Lei non mi riflette. Io per lei ho consistenza per l’amore limpido che provo. Dico.
Un po’ melenso ma è così, a differenza del cibo. Dice.
Infatti che c’entra questo con il premio? Dico.
C’entra eccome. Quel giorno eri perso come tante altre volte nella vita senza di me. Hai creduto di poter essere visto solo perché premiato, apparentemente riconosciuto non per l’amore per il tuo lavoro, ma per quello che rappresenti agli occhi degli altri. E quella gente ci va a nozze, hanno una pistola puntata sulla carne da macello come te. Per questo senza di me hai fatto tante sciocchezze. Dice.
E mia figlia? Dico.
Il tuo amore verso di lei non dipende dalla sua capacità di vederti o lodarti. C’è prima di tutto questo, di ogni meccanismo, qualsiasi cosa tu voglia essere con lei sei vero. E questo, ammetto, aiuta pure me.
Contorto. Dico.
Ma è così. Poi, dopo quel premio, per un paio d’anni hai osservato il meccanismo di quel mondo lì e te ne sei allontanato in punta di piedi, io avrei immerso le labbra nel Napalm e ne sarei uscito meglio. Dice.
Mi fai tornare il resto del corpo? Dico.
Guarda. Dice.
Il corpo è di nuovo intatto. Il bordo del cuore è colorato e sporco, negli occhi ho i ricordi cristallizzati, le iridi di ghiaccio, tocco la pelle che sembra di amianto. Strappo il destino già scritto dai palmi e la carne viva incendia il foglio mentre scrivo.
Un po’ di cose sull’essere visti
Essere invisibili ed essere visti, un articolo qui.
Essere apprezzati per sentirsi visti, altro articolo interessante qui.
Libretto di poesie dal titolo “Essere Visti”
Qui puoi condividere questo ricordo dove e con chi vuoi.
La copertina del gambero pistola è di Luigi Annibaldi!
Come riesci tu a scavare negli strati dell'io fino ad arrivare all'essenza...!❤️
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