Siete i benvenuti voi pronti al freddo, voi che leggete.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto, copritevi. Metto di nuovo le mani dentro, è ancora pieno zeppo, sto attento questa volta a non andare troppo giù, vediamo qui cosa c’è e mettiamola a scongelare:
Il malessere si concentra tutto in una fitta all’altezza del petto. Il torace si gonfia, si sgonfia ed emette rantoli che si trasformano in sbuffi fuori dal naso. Anche volendo non riuscirei a stare in piedi. Il petto sembra una pressa in azione, mi fa sudare bagnando la maglietta attaccata alla pelle.
Non riesco a vomitare, non riesco a respirare, non riesco ad aprire gli occhi. Ho la sensazione che il mio corpo si sciolga e goccioli sul materasso. Un attimo, dico al buio della stanza, la bava mi incolla le labbra, è calda. Un attimo, un attimo solo.
L’ostello in cui mi trovo è ad Amsterdam. Sono qui per festeggiare i trent’anni del mio amico Max. Ora lui e gli altri sono nell’altra stanza, parlano di me. Siamo in quattro e non mi piace si parli di me senza che io senta.
È stato il muffin che nel pomeriggio di ieri ho preso appena arrivati in centro dall’aeroporto, avevo lo stomaco vuoto.
Ho morso il muffin seduto in un coffee shop.
Non fumo ma almeno una cosa l’assaggio, sarà fatto con l’aroma di marjuana, l’essenza, mica il principio attivo, dico. Nessuno mi risponde. Lo mando giù. È un muffin dolce, grosso quanto un pugno, giallo uovo con puntini scuri sulla superficie. Sul menù in mezzo al tavolo è contornato da tutti i colori dell’arcobaleno, più accesi però, con la scritta fosforescente: “Specialità della casa”. Il coffee shop è immerso in una nube di fumo arrotolata intorno alle teste delle persone intente a fumare e parlare. Volete assaggiare? No no, noi prendiamo la birra, mi dicono gli amici di Max.
Berci su un caffè americano ci sta, scotta però quindi faccio rumore per sorbirlo e non bruciarmi. Ci ha servito una ragazza alta con le gambe lunghe e una canottiera, le ho guardato il seno, lei mi ha sorriso e ora la vedo trafficare dietro al bancone, un paio di volte l’ho beccata che mi guardava. Le ho detto che è molto carina mentre mi lasciava il muffin e il caffè, lei mi ha sorriso.
L’aroma della bevanda si mischia in bocca con un sapore acido. Forse l’acidulo è della marjuana, dico. Un amico di Max mi risponde che della marjuana nei dolci si sente solo la nota amara.
Mi guardano, io annuisco, loro fumano e bevono birra. Ridacchiano, forse perché gli ho detto che non fumo e che l’unica dipendenza che ho sono le donne. Forse sono stato antipatico quando gliel’ho detto. Rimaniamo in silenzio, finché Max dice dai paghiamo e andiamo che dobbiamo raggiungere l’ostello e abbiamo il tavolo prenotato per cena.
Usciamo dal coffee shop. Per raggiungere l’aria aperta costeggiamo un muro fino alla porta d’ingresso impiastrato di adesivi colorati, scritte colorate, foto e disegni di foglie di maria. L’ostello è quassù, dice Max indicando un palazzo poco distante.
Mi prude il viso, proprio mentre ci avviciniamo all’entrata inizia a formicolarmi tutto. Mi tocco la faccia spremendola sotto i palmi, è come immergere le mani in un lago. Salgo dietro a loro fino alla camera e mi siedo, mi gratto il viso e spalanco gli occhi.
Stai bene sì? Non rispondo.
I ragazzi poi mi dicono usciamo dai, abbiamo il tavolo per cena prenotato. Siamo passati solo per pisciare. Un attimo e ci sono, dico. In realtà non ce la faccio. Provo ad alzarmi, mi trascino verso l’uscita e alla fine li seguo. Mi avvolge la sensazione che le scale siano fatte di marshmallow, vedo i piedi affondare in un lilla sfumato di verde acqua.
Amsterdam è buia di sera. È illuminata da luci morbide e opache che sbiadiscono le case color pastello. Cammino lento. Gli altri tre mi sembra accelerino qualche metro davanti a me, hey mi aspettate dico, ma non rispondono. La faccia mi si squama, sono così indietro rispetto a loro che mi sento triste, una ventata di silenzio mi riempie i polmoni, sono così solo. Mi chiedo perché corrano. Scusate sono lento, ma non sentono.
La strada verso il ristorante è intervallata da cerchi di luce di lampioni molto più alti di quelli di Roma, girano su se stessi. Si muovono veloci. Temo si stiano piegando su di me, sento che si arrotolano al collo, mi sfiorano, mi manca il respiro. Mi aspettate? Sono sempre più distante dagli altri.
Ragazzi, andate più piano? Mi sa che le parole sono rallentate, sento due mani tirarmi la pelle della bocca fino a spalancarmela.
Perché loro non si fermano? Forse ci sta, me lo merito, è giusto mi lascino indietro. Scusate, dico. È mia responsabilità, è il mio modo di essere, sono io. Mi sento infinitamente solo e li odio. Si sono fermati, eccoci, il ristorante! Il locale è dopo un ponte di legno su un lago, subito prima dell’ingresso ci sono delle panchine.
Mi siedo un attimo su una panchina.
Dovresti andare più veloce, dovresti essere meno invadente con le tue necessità. Mi dicono. Le loro facce si allungano, strette in smorfie di rabbia. Ce l’hanno con me. Se ne andranno e resterò qua sulla panchina da solo.
Vorrei solo che mio padre non se ne fosse andato di casa, non ce l’ho con lui ma vorrei che qualcuno mi indirizzasse, vorrei qualcuno che mi dica a, o b o c, qualcosa insomma. Mica chiedo tanto. Mi accorgo di aver strillato tutta la frase intera senza prendere fiato e mi tappo la bocca. Dobbiamo andare abbiamo un tavolo, rispondono. Tengo le mani sulle tempie, loro si muovono a scatti. Li seguo con gli occhi.
No no, non voglio farvi perdere tempo voi andate, avrei solo voluto mio che mio padre mi dicesse non è colpa tua. Dico. Dobbiamo andare a cena, abbiamo un tavolo, ripetono.
L’accesso al ristorante è un sentiero che costeggia un fiume. Mi butto! Se mi lancio dentro, l’acqua fredda sicuro lava via il dolore. Faccio due passi indietro, prendo bene la rincorsa. Il punto è che il corpo non si muove. Sono ancora seduto sulla panchina.
Dobbiamo andare, abbiamo un tavolo. Dicono tutti e tre insieme. Dobbiamo andare abbiamo un tavolo.
Strizzo gli occhi, provo a saltare giù ma niente, ho le mani sudate e la pelle incollata alla maglietta perché sono certo che non uscirò mai più da questo loop.
Dobbiamo andare, abbiamo un tavolo.
Le loro facce si sono scurite. Io mi tappo le orecchie senza che il mio corpo si muova, ecco: rincorsa, salto, il contatto con l’acqua, la pelle, i brividi e l’andar giù in silenzio, gli spasmi del volto, il collo che si restringe, gli occhi spalancati che spariscono sul fondale.
Ma sono ancora seduto, il corpo non risponde.
Il petto si contrae, la gola si stringe e si schiude in un conato di vomito. Senza intenzione vomito e grazie alla violenza del gesto, davanti alla panchina, il loop per una frazione di secondo si interrompe. Andiamo via, per favore, scusatemi. Voglio tornare a casa.
Stai tranquillo mi dice Max mentre mi prende per il braccio e mi trascina sul marciapiede, oltre l’ingresso del ristorante. Lo abbraccio. Non c’è acqua intorno. Non c’è nessun fiume, c’è una strada. Se mi fossi tuffato sarebbe stato un suicidio in mezzo a una via ad alta percorrenza. Mi metto le mani in faccia, sento ancora la pelle fluida come acqua.
Voglio andare all’ospedale. Chiudo gli occhi. Voglio andare all’ospedale.
Forse sono morto. Se sono morto ho sbagliato di nuovo, come quando sono nato, dolore su dolore per tutti per colpa mia. Capite? Mi gira la testa e mi viene voglia di una donna. Una precisa ragazza. Barcollo e barcolla l’immagine di lei nuda sopra di me. E poi mi viene da ridere, quasi sento la sua pelle sulla mia. Come posso provare piacere nel degrado in cui sto scivolando ? Un altro conato mi strozza la gola e vomito di nuovo. Però poi apro gli occhi. La ragazza non c’è, la strada non c’è, Max non c’è.
Sono riverso su un pavimento bianco, piastrellato. Striscio sotto dei sedili. Sono un verme fatto di carne e ossa che si attorciglia sotto una fila di sedie blu. L’odore di vomito che sento viene da una pozza in cui galleggia la mia guancia sinistra. Mi ricorda l’acidulo del muffin, il caffè, la bile e i succhi gastrici e forse anche il pesce che avevo mangiato il giorno prima.
Guardo la luce a neon sparata e le scritte in inglese dentro alcuni cartellini sul muro bianco e blu. C’è una donna seduta lontano, molto lontano, vicino a lei riconosco Max con i suoi amici, parlano di me, parlano sicuro di me. La donna sembra mia madre. Da sola seduta a poca distanza da loro. Il mio incubo più grande mia madre da sola, non può restare da sola, dico ai sedili. Le telefono, dico, ma non sento le braccia, sono un verme senza mani. Gli amici di Max hanno ancora le espressioni deformate dalla rabbia, lui no. Ma non posso fidarmi di nessuno, è colpa mia, tutta colpa mia, tutti riconoscono la colpa in me, puzza come il vomito.
Se non fossi nato, penso rotolando via dalla pozza che mi lascia una striscia gialla sulla maglietta, se non fossi nato, con buone probabilità mia madre avrebbe un’espressione migliore e gli amici di Max non ce l’avrebbero così tanto con me.
Vomito ancora e tutto cola sulle piastrelle. Tossisco per farmi sentire da qualcuno fin quando due grossi uomini con i capelli rossi mi prendono e mi tirano su. Indossano guanti di lattice. Mi scaricano su una barella dove resto per un tempo indefinito, mi agito e sbatto sui manici laterali. Poi ecco una signora dai tratti orientali, come si sente? Chiede. Bene dico, le guardo, indossa il camice da medico. Bene, sto benone. Non si direbbe Signor…? Sto bene le ho detto! Vediamo dice lei.
Mi muove le palpebre con i guanti, il lattice si incolla alla pelle e mi tira le ciglia. La luce è accecante, la donna dice prenda questo è solo molto spaventato, mi ficca una pasticca in bocca, forse due.
Riapro gli occhi. Sono di nuovo sul letto dell’ostello. Ci vorrebbe una donna.
Il corpo non si muove. Se il mio corpo si separa dalla coscienza e invece di morire resto un vegetale, potrò dire di aver espiato la colpa di essere nato grazie a un muffin, stiamo pari, vita! Dico ad alta voce. Subito provo a vomitare ma non esce niente e resto con la bocca impiastrata di saliva acida.
Si può essere più soli? Sento scendere una lacrima. Una sola lacrima che verga la pelle e cola giù per il collo dentro la maglietta, la sento come un abbraccio, mi sembra mi stringa.
Sento suonare un cellulare. Provo a muovermi ma il corpo resta fermo. È l’ansia dice la voce dal telefono, è ansia Andrea, lei ha solo perso il controllo, forse era ora, stia tranquillo. Dottoressa? Ma lei è a Roma, io non ho risposto, noi ci vediamo mercoledì alle 9. Ma come fa a parlare? Io non ho risposto.
Andrea, stia calmo.
Io non voglio stare così male, dottoressa, non volevo mangiare il muffin, glielo giuro, non lo farei mai.
Andrea, suvvia. Vede, il punto è questo, non è la verità quella che crede di portare con sé, bensì una somma di cose che da bambino lei si è ancorato dentro. E tutto il controllo in questi anni l’ha portata fin qui. Lei è tutt’altro che solo. Io, per esempio, l’aspetto qui.
Ho impiegato anni prima di capire cosa intendesse, ora che ho il muffin in mano lo guardo. Vorrei assaggiarlo di nuovo, vorrei vedere ora che cosa accadrebbe. Sento un vento freddo salire dallo stomaco, avvicino il muffin alla bocca: non ha molto odore, come tutte le cose fredde. Così lo lascio cadere a terra e lo guardo andare in mille pezzi. Non serve più. Qualsiasi cosa vorrò guardare dentro di me, sarà passando per la strada vera, senza illusioni.
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In queste due settimane è uscito un mio racconto sulla rivista “Dentro la lampada“, è un racconto scritto in viaggio in Portogallo e ha la copertina di Luigi Annibaldi, si intitola “Alla polvere” puoi cliccare qui per leggerlo.
Poi ho trasformato la canzone “Fantasmi” di Rose Villain e Willy Wonka in gelato!
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