Siete i benvenuti voi pronti al freddo, voi che leggete.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto, copritevi. Metto le mani dentro, è pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori la prima cosa che capita in superficie.
Vediamo di metterla a scongelare:
A otto anni pedalavo tutti i pomeriggi tra le viette del giardino della casa al mare dei miei nonni. Pedalavo veloce senza frenare, piegavo le curve e il cuore pompava sangue alla velocità dei giri dei raggi della bicicletta. Il mio respiro sovrastava il guaito del nostro cane che non riusciva a prendermi. Pedalavo, sudavo e non pensavo di rallentare.
Non c’era altro che il caldo estivo, qualche albero, delle siepi e un pozzo nel mezzo del giardino. Pedalavo e la velocità era come se mi desse contezza del mio corpo, come se altrimenti, da fermo, fossi stato impalpabile. Inesistente. Così non frenavo, pedalavo e la bici scricchiolava e gli occhi si appannavano per via dell’aria.
È che intorno a me non c’era nessuno. Così correvo e sfioravo gli alberi, sfioravo i fiori, mi sentivo in colpa se qualche fiore più colorato finiva schiacciato sotto le ruote. Ma passava subito. Poi un altro giro e li puntavo. Ci prendevo gusto, sceglievo i meno colorati e la gomma delle ruote li faceva sparire in una poltiglia verde e marrone con striature di colori appena visibili. Li vedevo brutti, però loro almeno se ne stavano lì ben in vista e li vedevo e di certo qualcuno li avrebbe notati spiaccicati e se ne sarebbe preoccupato. Il calore svaniva e il freddo mi appiccicava la maglietta sulla pelle.
La strage di fiori era il preludio, quando all’ennesimo giro la scarpa mi strattonò il piede. Il laccio aveva arpionato la ruota anteriore e si era arrotolato ai raggi. La bici si impuntò e finii dritto contro il muro di mattoni del pozzo.
Forse se ci fossi finito dentro, al buio, nel fondo, forse, forse laggiù avrebbero dovuto cercarmi e per forza vedermi.
Invece rimasi a terra con un’espressione nuova, dipinta non sul viso ma sulla gamba. Una smorfia lunga quattro centimetri e larga cinque e profonda non avevo idea quanto. Credo di non aver mai saputo quanto misurasse la distanza tra lo strato superficiale della pelle fino all’osso dentro la coscia in un essere umano magro di otto anni.
Il cane guaiva e il vento pure, ricordo. Il sorriso triste aperto sulla mia gamba, abbastanza grande da permettermi di vedere i muscoli e il bianco dell’osso, si apriva senza che io potessi controllarlo. Pensai che a otto anni, se esiste un’anima che vive dentro il corpo come dice la maestra Perla, ora è triste. Si vede dalla coscia e dall’espressione della ferita.
E se mamma e papà si arrabbiano?
Pensavo mia nonna glielo avrebbe detto subito. Non voglio si arrabbino. Non voglio dargli questo peso. È che loro sono sempre così angosciati. Però sarebbero costretti a correre qui, insieme. E insieme non stanno mai. Pensavo.
Il sorriso se ne stava lì sulla pelle un po’ triste, un po’ involontario; sbavava sangue su tutta la metà della gamba da sotto al ginocchio e io non sapevo se ridere o piangere. Non riuscivo proprio con nessuna delle due alternative.
Non sapevo cosa sentire.
Il pedale se ne stava a terra sotto il pozzo, inerte, sporco di sangue. Quel coso era l’unico però ad avermi svelato un pezzetto della mia anima. Me la stava facendo sputare fuori dalla coscia. La smorfia sapeva bene cosa sentire. Lei sì altrochè. Continuava a sbavare liquido rosso, qualche schizzo colorava i mattoni intorno che pure il muso del cane aveva punti e strisce rossastre e provava a leccarselo via senza riuscire. Il resto del sangue colava sulla pelle e la scarpa da ginnastica intrisa mi freddava il piede anestetizzandolo. Guardavo la smorfia sbavare da dentro i tendini strappati, incantato dalla carne rossa e rosa viva sotto al fiume di sangue che colava verso la caviglia.
Volevo mia mamma. Iniziavo a valutare che avrei potuto ficcare due dita dentro alla ferita per vederla meglio e strillare, così magari qualcuno, chiunque anche eh, sarebbe stato capace di vedere insieme a me la smorfia di quest’anima che rideva e sbavava e piangeva e colava. Aveva così poco spazio e tempo attraverso quei pochi centimetri che presto si sarebbero richiusi.
Quando arrivò mia nonna io non piangevo, guardavo la smorfia. Lei mi chiese di alzarmi e di andare sotto al patio. Muoveva le mani incrociando le dita, ma osservai, nel modo in cui mi guardava, che stava soppesando l’entità del problema che le si era presentato. Sapevo cosa pensava. Chiamare mamma o papà, farmi mettere dei punti, il pronto soccorso, i dottori, la paura. Troppo, le leggevo negli occhi. Ma tornavo subito a guardare la gamba rossa e la smorfia. Speriamo non dica nulla.
Mia nonna prese della penicillina senza dire niente. La rovesciò sopra alla ferita, sbattendo il fondo del contenitore. Ne versò così tanta da far sparire il sorriso, l’osso, agitava la mano e via il sangue e via la pelle e pure l’anima, tutto soffocato.
Mi fece capire con uno sguardo che così sarebbe guarito, che non serviva altro, che non serviva allarmarsi oltre. Volevo chiamare mamma. Mi disse di aspettare che non era niente e che ero forte.
Rimasi in silenzio senza fiatare, senza piangere, senza ferita, senza smorfia. Un po’ senz’anima.
Da allora cominciai a pensare che davanti alla carne viva, all’osso di un dolore, bisognasse coprire tutto con la penicillina o con qualsiasi a disposizione, che soffocasse pur di non far vedere nulla.
C’è qualcosa di simile nel tuo freezer? Qualcosa che ti ricordi di quella volta che ti hanno insegnato a nascondere le ferite e fare come se non fosse successo niente?
Chiudo il freezer, tengo il pedale in mano. Gli do un bacio e lo appoggio a terra, non è più freddo. Mi tiro su la gamba dei pantaloni. Sopra al ginocchio, sulla gamba destra, ho una cicatrice che non è mai guarita del tutto. È un sottile strato di pelle liscia, elastica, quattro centimetri per cinque. Lì non sono mai cresciuti peli e, ogni volta che copro dolori di ogni genere, la cicatrice mi prude.
Guardo il pedale a terra. Fuori dal freezer, alla luce lo posso vedere. E se lo vedo, se non è più nascosto, nemmeno la ferita può più essere nascosta. Ora mi tocca prendermene cura. Ora può finalmente cominciare a guarire.
Condividere è scongelare, se anche tu hai un freezer o anche un solo oggetto da scongelare, questo è il posto giusto. C’è una stanza intera da riempire. E se vuoi, puoi condividere questo appuntamento con qualcuno a cui tieni.
Mi sono commossa perché questo ricordo è un vero regalo. Sono sempre più orgogliosa del tuo progetto, che inizio stupendo! Avanti così, sbriniamo tutto
Grazie Andrea per questo bellissimo pezzo. Mi ha colpita in particolare perchè ho un ricordo molto simile: estate, in campagna dai nonni, caduta dalla bici (non per colpa del pedale e del laccio ma del gallo che mi ha tagliato la strada), ferita alla coscia che necessitava di punti, non so perché non siamo andati a PS, risultato: due belle losanghette bianche sulla coscia a ricordarmi questa avventura!
Incredibile quanto le storie certe volte si assomiglino. Grazie per aver deciso di scrivere le tue