Nel mio freezer c’è entrato anche un pozzo dentro cui ricordo di essere caduto, ora da scongelare.
Secondo Freud1: “L’inconscio è una parte della mente che contiene pensieri, ricordi e desideri (sia contenuti, sia processi) che sono al di fuori della consapevolezza cosciente ma che influenzano comunque il comportamento e le emozioni dell’individuo. Freud introduce per la prima volta il concetto di inconscio nel suo magistrale testo “L’interpretazione dei sogni” del 1900, dove descrive l’inconscio come un deposito di contenuti non accessibili alla coscienza che emergono attraverso sogni, atti mancati e lapsus.”
Quel poco che riesco a scrivere lo scrivo qui seduto sul pozzo nel giardino della casa al mare dei miei nonni, illuminato dal sole del pomeriggio. Ho provato per anni, dal liceo, con il giardino intorno, gli alberi, i piccoli fiori puntellati di colore, le api, i vasi di terracotta arroventati dal sole, ma non funziona.
Tocco la carta, guardo la penna, scrivere a mano a ventidue anni è una cosa che fanno in pochi.
Solo che io non scrivo niente2. Io millanto di scrivere, me lo invento.
Proprio ieri la ragazza a cui l’ho detto, mentendole, mi ha spiegato che la scrittura può essere “riparativa” e che scrivere dei miei drammi potrebbe aiutare.
Drammi è una parola curiosa. Ho detto.
Abbiamo un inconscio in cui depositiamo desideri, rimozioni, azioni incompiute ed è lì che scorre l’arte. Tipo un fiume di inchiostro.3 Mi ha detto.
Ha messo i suoi occhi celesti dentro i miei.
Io non ce l’ho. O almeno non credo di averlo. Glielo ho comunicato e l’ho baciata. Poi non ne abbiamo più parlato.
Un gocciolio sale alle mie spalle dal pozzo.
Non è possibile però, è sigillato da due pietre spesse e levigate e, da quanto ne so, questo pozzo non dovrebbe contenere più acqua.
Fa caldo per essere un pomeriggio di fine agosto. Il sole scivola e filtra tra le foglie degli alberi intorno; scrivo tre parole sul pezzo di carta e le cancello.
Mi arriva chiaro lo scrosciare di acqua che mi distrae. Giuro, viene dal pozzo.
Mi giro.
La luce del sole ora stira la mia ombra che diventa oblunga, sembra la sagoma di un alieno; l’extraterrestre supera il pozzo e raggiunge un cespuglio, arriva a coprire dalla luce una grossa ape intenta a scegliere un fiore su cui posarsi.
L’insetto si alza in volo, con le sue minuscole ali sembra voler ripercorrere tutta l’oscurità per raggiungermi. Io la seguo come ipnotizzato. Tutti cercano la luce, penso.
L’ape si piazza davanti al mio naso, emette un suono morbido, un ronzio lieve e caldo e le ali vibrano e le mie palpebre vengono catturate dai micro movimenti e diventano pesanti e non riesco a tenerle aperte. La mano con cui stringo la ringhiera mi sfugge ed è un istante troppo tardi, guardo il pozzo e le lastre di pietra non ci sono più. La testa pesa e crolla, non riesco ad aggrapparmi e cado con l’odore di muschio e muffa che mi tappa le narici e mi trascina giù.
Cadere è un riflesso muscolare che il corpo non riconosce in quanto incondizionato e quindi mi abbandono. Morirò e non sento alcuna intenzione di vita tra i muscoli. Smetto di respirare e chiudo gli occhi.
La caduta, invece, finisce dentro un liquido morbido.
Non è freddo o caldo, mi avvolge e riesco addirittura a respirare al suo interno. Apro e chiudo la bocca come un pesce e respiro e galleggio roteando immerso dentro al nero.
Sprofondo, senza gravità come nello spazio, e nel buio vedo l’ombra di una bambina che mi somiglia con i capelli d’oro e poi una donna che mi sorride e che sento non saprò amare a lungo prima di amarla e sprofondo ancora e mi gira intorno una penna e vedo mia madre su un divano e mio padre intento a spiegarsi con un’ombra e i baffi del mio bisnonno e oscillo dentro vortici umidi e assisto a al deflagrare di una guerra nucleare che rade al suolo la terra e mi vedo in fila dietro a migliaia di persone e davanti a migliaia di persone, poi mi vedo seduto su una scrivania con tutte intorno macerie e un libro con una lingua ustionata disegnata sulla copertina e c’è un genio della lampada su un iceberg, poi un deserto di specchi e continuo a cadere e ancora vedo un seno che allatta e un uomo senza vita e un enorme palazzo fatto di neve, c’è dell’odio che ha la forma di un caprone di colore rosso che ride, c’è un sorriso di un bambino e c’è Giulio Cesare che mi indica e poi le forme di una donna nuda disegnate a matita; le immagini iniziano a rallentare fino a sfumare. I muscoli finalmente reagiscono e si tirano e si ribellano. Non sono mossi da un desiderio di vita, più da una paura chiara che accerchia ogni organo e mi preme sul petto fino a non permettermi più di respirare.
Muovo le braccia sempre più veloci, le muovo ovunque intorno, tiro su una mano, poi l’altra, in cerca. Finché non sento qualcosa a cui aggrapparmi e l’angoscia sembra rallentare. Mi tiro su, ho il corpicino piccolo, lo sento dalla leggerezza con cui salto sulla riva che è fatta di terra morbida che sembra sabbia. Cola via il liquido nero che mi copre. Non sono bagnato, è più una gelatina densa che non attecchisce sulla mia pelle e ora sembra liquefarsi e tornare verso il fiume, guardo la corrente, è nera di inchiostro e solo posarci lo sguardo mi toglie il fiato.
Intorno c’è una giungla fatta di alberi, vicini tra loro, che si alzano su tronchi spessi e foglie che si intrecciano l’una all’altra. Vedo ombre aggirarsi dentro e fuori, camminano lente e si immergono nel corso del fiume, giuro di vederle poi uscire fuori sotto forma di decine di minuscole gocce.
Il fiume scorre, si perde nella foresta. A lasciarmi senza fiato è che il corso non scompare del tutto, ma a un certo punto, dalla foresta, sale. Non verso un monte o verso colline ma scorre in direzione del cielo scuro, diretto nello spazio. Sbatto gli occhi due o tre volte perché non ci credo. Ma è lì che sale su, le vedo, miliardi di stelle e mi fa impressione che quasi mi gira la testa. È come avere l’universo a pochi metri.
Non ci sono onde, non c’è vento, non c’è vibrazione ci sono solo gocce che salgono leggere e ripiovono silenziose sulla foresta.
Provo il desiderio di immergermi, voglio buttarci dentro il mio dolore ma un’ira furibonda che non riesco a controllare cresce dentro di me come una bestia feroce, mi guardo intorno, una goccia dondola dal mio naso, oscilla appena, poi un’altra e un’altra ancora e altre si staccano una a una e io desidero di sparire nel fiume ma non riesco a muovermi ed è terrorizzante, è il desiderio stesso che mi blocca e immobilizza le gocce e alterna il bisogno di immergersi alla rabbia e non so come fare.
È cosi che arriva il freddo.
A ghiacciare per prima è proprio la goccia sul naso. Il fiume smette di scorrere e le ombre fatte di gocce si cristallizzano e le stelle sembrano fiocchi di neve e non c’è un colore, non c’è movimento, non c’è intenzione. Il ghiaccio è sopra tutto e mi avvolge e mi riempie. Svaniscono la paura, la rabbia e le intenzioni, portando via anche tutti i desideri.
Andrea!
Andrea. Dice mia nonna.
Andrea!? Tutto bene? C’è questa bella ragazza dagli occhi celesti e luminosi che suona il campanello da dieci minuti, l’ho fatta entrare.
Sento l’inchiostro asciugarsi dentro gli occhi e colare via giù chissà dove. Ho un brivido di freddo su tutta la pelle, in particolare sulle mani, anche se il sole mi illumina.
Stringo ancora il foglio bianco che ora ha qualcosa di scritto.
“Non è ancora la morte questo vallo,
questa lugubre terra di nessuno,
ma non è più, no, non è più la vita.
Qui le strade non vanno in nessun dove,
qui non è canto, qui non è speranza,
e non c’è niente all’infuori di me.”
Lo accartoccio e lo metto in tasca.
Mia nonna si allontana, la ragazza mi guarda, mi sorride e i suoi occhi sono azzurri come il ghiaccio, eppure li sento bollenti sulla pelle e il brivido freddo scompare; mi prende la mano e scendo dal bordo del pozzo che, con la coda dell’occhio, noto è di nuovo chiuso dalle due lastre di pietra.
Hai la mano calda. Dice.
Sì? Dico.
Sì Andrea. Mani calde cuore freddo, mi ripete sempre mio nonno. Dice.
E mi bacia sul collo, mentre l’ape che mi ha portato nel pozzo atterra su un fiore colorato, come se io non esistessi più.
Qui puoi condividere con chi vuoi questo “pozzo”
Come sempre ti lascio un ricordo caldo delle ultime due settimane, bello o brutto che sia.
Un paio di settimane fa sono stato a un “secret show”. La presentazione del nuovo album de “Il muro del Canto”4 dal titolo “La mejo medicina”,5 è una presentazione-festa solo per amici e giornalisti.
C’è un sacco di roba da mangiare e l’ambiente ha un suono cavernoso come la voce del cantante e bevo un po’. Le persone invitate che gravitano intorno al gruppo sono ancorate in un modo o nell’altro alla strada, alla musica che viene da dentro. Non hanno il gonfiore tronfio del successo e la replicabilità della musica mainstream. Creano arte attingendo a luoghi profondi e limpidi.
Daniele Coccia,6 il frontman del Muro del Canto è un mio amico ed è lui che mi ha invitato. Quando scrive e canta io sono certo immerga la penna dentro quel fiume nero che incontrai da ragazzo e credo riesca pure a bere quell’acqua nera per schiarirsi la voce, tra un bicchiere di vino e l’altro. Senza paura.
Sta per iniziare, lui mi vede, mi abbraccia, è teso ma andrà bene e io sono in prima fila.
Iniziano a cantare il nuovo album che vi consiglio di ascoltare fino alle note finali, poi passano a tre loro classici. Vi lascio qui uno dei loro pezzi migliori di alcuni anni fa “L’anima de li mejo”. Io la trovo un capolavoro e vi lascio qui il video.
Magari riscalda, con un po’ di sole, chi cammina solo. Con me a volte ha funzionato.
Oggi so che il blocco dello scrittore ha un’articolazione radicata nel profondo, ma al tempo non me ne rendevo conto. E qui è interessante capirne di più.
Mi hai fatto finire nel gorgo, forse anch'io ho avuto il mio fiume nero.
Sei sempre avvincente, direi quasi ipnotico; leggerti significa entrare in un altro mondo e trovare pezzi di sé.
♥️