Benvenuto a te che leggi.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Metto di nuovo le mani nel freezer, è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo.
Tiro fuori un’altra cosa.
Vediamo di metterla a scongelare:
Ora resto solo io. Vedranno. Firmo con la Mont-Blanc. Me l’ha regalata zio F. e ha scritto sul biglietto: “All’unico vero dottore in famiglia“, me l’ha data il giorno dopo la mia mediocre laurea in Scienze Politiche. Però ci credo a quelle parole ora che lui non c’è più da tre anni. E io sono qui adesso, io e basta e tutti capiranno presto di cosa sono capace e di quanto siano tutti incapaci.
È uno studio di avvocati grande quanto un resort di lusso per una decina di famiglie. Non è un palazzo normale o meglio, da fuori sì, il punto è che da dentro è tutto un unico corridoio. Conto le porte sulla destra, sono solo sulla destra perché a sinistra ci sono arazzi medievali e grossi lampadari a muro con luci gialle. Uno, due, tre, quattro, cinque, tavolo, sei, sette, otto, tavolo, nove, quadro, dieci. Non vedo le porte successive, ma ce ne sono sicuro perché la fine del corridoio la vedo molto più giù della decima porta.
Accanto a me ho due avvocati, il loro completo è stirato e il mio sgualcito, la loro camicia è bianca inamidata e la mia ha il colletto interno e i polsini ingialliti dal tempo, le loro scarpe brillano di luce tipo prismi, le mie sono da ginnastica. Forse potrei vestire con più accuratezza, penso che me lo dico spesso.
Conta la sostanza. Uscirò di qui come unico Amministratore dell’azienda Fassi, che dopo 136 anni non è più di proprietà della mia famiglia.
I due avvocati parlano a voce bassa di una causa di aggiottaggio di un grosso gruppo immobiliare, poi mi guardano e mi fanno cenno di entrare dentro una delle stanze, la settima mi sembra, le porte tutte uguali che abbiamo superato dovrebbero essere state sei.
Entriamo. C’è un tavolo lungo, conto le sedie intorno, sedici, altri tre avvocati, un’interprete e Mr. S., il capo dell’azienda coreana a cui la mia famiglia ha venduto la società.
Stringo la Mont-Blanc in tasca.
Salve. Dico.
Mi salutano, si alzano e mi sorridono tutti. Stringo le mani, guardo intorno in cerca di punti lontani dai loro occhi e passo di mano in mano velocemente.
Mi siedo e sotto di me sul tavolo c’è il contratto che devo firmare. Pagine di accordi sul mio ruolo di Amministratore Delegato, il mio compenso, la mia disponibilità finanziaria sul conto dell’azienda, gli obiettivi.
Gli accordi sono tutti scritti come pattuito, deve solo firmare signor Fassi. Dice l’avvocato vicino a me.
Prendo la penna. La stanza è grande più del necessario. Tra il tavolo e i muri passano almeno tre metri e sono appesi tutti intorno quadri di battaglie che mi sembrano medievali, i lampadari accesi restituiscono enfasi alle scene violente dei ritratti. Noto che dalle finestre entra il sole. Il legno del tavolo è spesso e liscio, è marrone scuro, pregiato immagino. Chissà che albero era.
Tiro fuori la Mont-Blanc. È nera, la classica Meisterstück. Zio non sapeva volessi scrivere, nessuno lo sa e infatti non ho mai scritto niente. Però voglio firmare il mio futuro con questa, fimo la certezza che tutto andrà in ordine con me a capo dell’azienda e salverò il nome che altrimenti sparirebbe.
Giro il tappo per tirare fuori la punta ma due pezzettini di metallo spuntano dai lati della penna e iniziano a battere l’uno contro l’altro, applaudono.
Bravo, complimenti, bravissimo. Dice.
Io sgrano gli occhi.
Ma che ci fai tu qui? Dice. Te lo dico io che ci fai, ti dico che sei qui perché tuo zio è morto e quelli rimasti hanno sbolognato la baracca e sei l’unico cancro disponibile col nome Fassi e questi Coreani mica sono scemi, ti buttano dentro solo per non affossare la gelateria con un occhi a mandorla in cassa. Guarda come ti sorridono. Perché dovrebbero volere un fallito quale sei? Ma poi non volevi fare lo scrittore? Pupazzo.
Apro la mano e lascio cadere la penna che con la punta scheggia il tavolo.
Tutto bene dottor Fassi? Dice l’avvocato alla mia sinistra.
Sì, sì. Eccomi.
La penna è in orizzontale sul legno proprio accanto al contratto. Avvicino la mano piano e la prendo di nuovo.
Coglione. Non sai fare il gelato, non hai mai gestito un’azienda, non sai scrivere, sai solo piagnucolare di quanto tutti i tuoi familiari ti abbiano ostacolato nella vita, quando bastava tirare fuori un po’ di palle invece di recriminare. La verità, te la scrivo io la verità: sei un fallito, senza palle, un coglioncello, una cozza che si attacca all’unico scoglio che la fa sentire al sicuro.
Le due estremità ora sono vere e proprie piccole braccia con tanto di muscoli metallizzati in color oro, il tappo è levigato e lucente e gira su sé stesso ed è come se si freddasse, mi si raggrinzisce il palmo della mano. Mi guardo intorno. Uscirò di qui che sono il capo, le penne non parlano è solo stress. E mentre respiro a fondo mi sembra tutto torni in ordine.
Sono il capo perché è giusto. Perché nessuno ama il Palazzo del Freddo quanto me, nessuno. Lo odiano, odiano hai capito? E io dimostrerò l’opposto, sarò migliore anche del mio bisnonno, più grande.
Alzo gli occhi, tutti uomini eleganti, tutti mi guardano appesi nella luce artificiale della sala. Io credo di essere diventato minuscolo.
La penna è sempre più fredda.
Ragazzino ascoltami bene. Questi qua lo sanno, questi sono navigati. Questi lo sanno che sei un figlio di papà, figlio unico, viziato, inconcludente che sa solo mettere due parole (vuote, ricordatelo) insieme, mezzo manipolatore e al massimo puoi fregare qualche fighetta di quelle che piacciono a te che ci cascano. No, questi no, questi sono manager qui girano soldi qui gira il grano, loro ti sbatteranno in faccia la realtà in un paio d’anni.
Alzo di nuovo gli occhi. Lo vedono sicuro, lo vedono. Forse ha ragione la penna. Loro lo sanno. Sanno che non merito questo contratto portentoso, questo ruolo, ma non hanno alternative, sono l’unico Fassi disponibile. Stanno zitti per questo.
Esatto coglione. Ah, aspetta, aspetta, nel tuo curriculum hai scritto laureato. Dottoressa al massimo. Ti ricordi come sì? neanche a cento sei arrivato e ti hanno pure chiamato Andreina nella sala della proclamazione, io non c’ero coglione ma deve essere stato uno sballo: Dottoressa Andreina Fassi, la fighetta più frignona dell’Università. Un percorso umiliante con una fine degna.
Ho le mani bagnate, fredde, la penna ormai è gelida, le labbra si incollano e inizio a credere che forse, forse è tutto sbagliato.
Ohhh, bravo il mio coglione che non sa e non saprà mai chi è. Facile facile: ti chiami Fassi e qui ci sei finito solo per quello, punto, fine. Ah aspetta, e ti dico pure che la gelateria per te è uno scudo bello e buono sul vuoto, vigliacco. Senza saresti un buco di culo di niente.
La penna trema come ghiacciata, mi forza la mano lontano dai documenti.
Signor Fassi noi dovremmo chiudere. Dice l’avvocato seduto vicino a Mr. Shin.
Lui però gli mette una mano sul polso e inizia a parlare. È proprio Mr. S. che mi ha voluto a capo dell’azienda qui in Italia, con lui mi sono scritto nei mesi passati.
Oh, sentiamo il muso giallo che ti dice, coglione. Davvero credi che non l’ha capito che ti sei apparecchiato il terreno scrivendogli le scorse settimane per non essere fatto fuori? forse s’è svegliato e ti manda per stracci prima ancora della firma. Meglio un coreano che un Fassi coglione.
Stringo la penna e le piccole braccia dure di acciaio gelido mi respingono.
Mr. Shin parla coreano, mi sorride e quando conclude fa un cenno con gli occhi all’interprete.
Datemi due goccine di inchiostro rosso cazzo, due goccine e mi godo come Cristo comanda la tua disfatta, guarda, già ti vedo a piagnucolare e a dare la colpa a chi? a chi questa volta? a papà? a zia? a nonno? Ahh lagnati pure di me se vuoi, che tuo zio mi ti ha regalato mica perché vali un cazzo, non lo sai che si regalano le penne alla laurea coglione? ma quanto ti devi credere importante per campare?
Il cuore mi batte così forte che temo di spezzare la penna da quanto la stringo, e il freddo non sembra retrocedere infatti la mano si è fatta pallida e ghiacciata.
Signor Fassi, Mr. S. ci tiene a dirle che ha massima stima del suo operato. Ha letto la sua tesi di laurea sull’internazionalizzazione dei marchi italiani in Asia e ha apprezzato il suo scritto, inoltre ogni scambio prima di questa firma è stato positivo, sia sugli obiettivi prefissati da lei sia sul suo entusiasmo. Mr. S. è certo che averla sarà motivo di successo reciproco non solo per il cognome che porta, di cui lui ha grandissimo rispetto, ma anche per il suo intuito e la sua energia.
Ma come, ma cosa, ‘sto muso gial... sento il freddo affievolirsi e la penna non conclude la frase, le sue braccia di acciaio laccato allentano la resistenza.
Sorrido, ringrazio, guardo Mr. S. negli occhi che ricambia lo sguardo in cui non scruto granché, ma decido di fidarmi e respirare.
La penna non è più gelida, la passo tra le dita e inizio a firmare ma è fredda e l’inchiostro non esce.
Tu…non…vali…nient.. stringo di più; io ci provo, ne riparliamo tra qualche anno e vedremo chi ha ragione.
Stai zitta. Dico.
La mano si scalda e la penna si silenzia mentre l’inchiostro fluisce e diventa Andrea Fassi su ogni pagina del lunghissimo contratto.
La penna è qui con me, subito calda. Negli anni ho iniziato anche a collezionarne svariate e ognuna mi parla di qualcosa. Ma lei è quella che uso per le questioni importanti. La porto con me a memoria di ogni insicurezza soffocata dal credermi invincibile. Lei aveva ragione allora, ma non ne ha avuta poi nel tempo perché i risultati del mio lavoro, a distanza di quasi dieci anni, sono tangibili. Eppure, ogni volta che la tocco, ho il timore veda luoghi di me che io non riesco ancora a guardare.
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La copertina è sempre del super amico Luigi Annibaldi, colonna importante e calda della mia vita.
Ho aggiunto poi questa pagina (clicca qui per aprirla) di SottoZero dedicata a dei racconti un po’ avventurosi che ho scritto in passato, ci troverai i primi tre.
Bello e intenso ... e quella penna!❤️
♥️