Siete i benvenuti voi pronti al freddo, voi che leggete.
Qui tutto è gelato, anche il rumore.
Ora il freezer è aperto, copritevi. Metto di nuovo le mani dentro, è ancora pieno zeppo che non riesco a vedere il fondo. Tiro fuori la prima cosa che capita in superficie e mi fredda le mani.
Vediamo di metterla a scongelare:
Mia madre aveva l’abitudine di tenere il suo beauty case aperto sul divano, in salotto. Vicino c’era sempre uno specchio rotondo, di quelli che metti dritti grazie a due stecchetti sul retro.
Una mattina prima di andare a scuola, frequentavo la terza media, mi sono soffermato a osservarla mentre si truccava. La guardavo da dietro la porta della sala da pranzo che dava sul salone. Lei era seduta sul divano, con una mano teneva lo specchio, con l’altra si passava un pennello sulle guance. Un po’ mi nascondevo, un po’ facevo capolino. Volevo essere visto ma poi, alla fine, preferivo rimanere nascosto. Muoveva le mani seguendo lo stesso giro, dava una pennellata e poi uno sguardo allo specchio. Davanti a lei, su una poltrona, il nostro gatto Sharky ne seguiva i movimenti delle mani con gli occhi gialli striati di nero. Di lei vedevo solo il profilo destro e l’ombra che si allungava sul divano. Non ha mai sorriso durante tutto il tempo in cui sono stato lì. Ero sicuro che non mi avesse visto, altrimenti, credo, mi avrebbe sorriso.
Dovevo ancora ordinare i libri da portare a scuola, l’ho guardata avvitare il rossetto rosso scuro e poi posare lo specchio. Il gatto è saltato a terra dalla poltrona e io sono scappato in camera mia. Ho preso i libri sbattendoli, ho alzato e lasciato a terra lo zaino, fare rumore mi sembrava una buona tattica per fugarle ogni dubbio che mi fossi messo a spiarla. Mi chiedevo perché non le fosse venuto almeno un accenno di sorriso. Forse lavorare la mattina non le piaceva, forse non le piaceva il suo lavoro o magari aspettare che rientrassi da scuola e ripetere ogni giorno me, lei, lavoro, me, lei, lavoro, la affaticava. Non mi andava di pensarci, non volevo scorgere nulla di più. Ho accatastato i libri, spinto tutto un po’ con il palmo della mano e chiuso lo zaino con la zip.
Poi lei mi è venuta a salutare. Mi ha chiesto: posso?
Ho aspettato qualche istante e le ho risposto ok. Di spalle, muovevo lo zaino già chiuso. L'ho sentita avvicinarsi e mi ha baciato sulla guancia. Io sono rimasto fermo, guardavo lo zaino. Ho accennato mezzo sorriso quando lei era di nuovo dietro di me. Il suo bacio odorava di cipria. Sentivo alle spalle la sua presenza, in silenzio, poi qualche passo. Ho scosso lo zaino e lei è uscita.
La porta si chiudeva sempre con il rumore metallico tipico delle porte blindate. Ho aspettato di sentire i passi scendere dalle scale, echeggiavano lontani dalla mia camera, in fondo alla casa. Poi silenzio. Sono andato dritto in salone a prendere lo specchio tra i grossi cuscini e l’ho portato in camera.
Seduto sul letto, lo tenevo fra le mani e ci giocherellavo. Cercavo qualche riflesso di mia madre, magari un suo sorriso che mi era sfuggito. Lo specchio era rotondo, incassato in una cornice sottile e nera. C’ero io riflesso, con la mia faccia da dodicenne, che provavo a sorridere e mi usciva solo un ghigno a metà con una fossetta sul lato della bocca. I miei occhi non erano uguali né ai suoi né a quelli di mio padre. Li aprivo e li chiudevo. Erano verdi e cercavo di contare i pezzetti di marrone che ci vedevo dentro. Sembravano frammenti di vetro scuro incastrati lì per caso. Non c’entravano niente, ma là stavano. Poi ho deciso di fissare allo specchio il mio riflesso nella sua completezza, rimanendo fermo.
Avevo dimenticato la scuola. Avevo dimenticato il tempo e mia mamma. Avevo il viso uguale al suo però, stessi lineamenti, guance e fronte uguali, anche un po’ di occhiaie. Rimasi fermo a lungo. Il sole filtrava dalle tende e io iniziavo a vedere la pelle distorcersi. Senza accorgermene, il fiato era diventato corto. Mi sembrava che un’ombra si stesse staccando dalla mia faccia. Volevo muovermi, ma l’unico movimento era quello del petto che incamerava aria. Pensavo che qualcosa stesse andando male, che qualcosa non funzionasse. Ma continuavo a guardare questo specchietto rotondo pieno di me. Un’ombra con i miei stessi lineamenti vibrava sul mio viso, la pelle iniziava come a squagliarsi e gli occhi, immutati nel verde puntellato di marrone, avevano al posto della pupilla uno spillo e i pezzi di vetro scuro riflettevano minuscole copie della mia faccia. Avevo i muscoli del collo tirati, potevo vedere sotto il mento le vene ingrossate, non sentivo più la schiena.
L’immagine ombra del mio volto era fuori fuoco di pochi millimetri, i miei occhi mi apparivano incattiviti, più piccoli, il verde più brillante. Quella copia scura usciva e rientrava dal mio volto, allineandosi e disallineandosi. Volevo piangere, ma erano un po’ di anni che non sapevo più come fare. Non avevo idea di cosa stesse succedendo. Speravo che mia madre si fosse dimenticata qualcosa e rientrasse, che l’ombra sparisse, rivolevo la mia pelle di ragazzino e il mio sorriso mai completo e i miei occhi e mia mamma.
Quel nero esisteva però, era lì che vibrava e si mostrava, il mio respiro era rumoroso, potevo sentirlo fuori di me. Di quell’ombra non avevo contezza, sapevo solo che non avevo intenzione di interagirci.
Ho aperto le mani meccanicamente e ho chiuso gli occhi. Lo specchio è caduto a terra, l’ho sentito scricchiolare, incrinandosi con due solchi simili ai fiumi disegnati sulle mappe geografiche. Sono rimasto qualche secondo con gli occhi chiusi. Poi li ho aperti e ho guardato a terra.
Vedevo le due crepe e la mia faccia. Ero di nuovo io, intero, con gli occhi verdi, con le macchioline e la pelle di un dodicenne. Niente ombre. Seguivo con lo sguardo quelle due crepe come fossero fiumi che confluivano nel nero della cornice. E, come un fiume, ho deciso in quel momento di lasciar scorrere via quello che avevo visto. A mia madre non ho mai raccontato nulla. Ho appoggiato lo specchio a terra, subito sotto al divano. Le ho lasciato immaginare fosse stato il gatto, o che magari lo aveva lasciato lei in bilico.
Adesso lo specchio è di nuovo davanti a me, le ombre danzano dentro quei pezzetti marroni incastrati nel verde. Il mio volto è integro, non vibra e non si squaglia e lo specchio non ha più crepe. Posso guardare dentro ogni riflesso e trovare pezzi di me senza lasciar cadere lo specchio; desidero vedere anche i più oscuri, perché più sono neri, più il verde mi sembra bello.
Ho letto uno studio, pubblicato sulla rivista “Perception” dal Dott. Giovanni Caputo, su questo fenomeno che ti ho descritto. Un’illusione visiva per cui il tuo riflesso nello specchio, dopo diversi minuti, può apparire distorto fino a creare un cambiamento della percezione dell’identità e dei connotati. Se c’è un’immagine di te con cui hai bisogno di fare pace, qui puoi condividerla!
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