Benvenuto! Questa sezione di SottoZero è dedicata a racconti d'avventura dove il freddo diventa polvere. Puoi scrollare per leggerli quando ti va!


#1 Il surfista, il prigioniero e il Re

Racconto pubblicato sulla rivista “Dentro la lampada“



Nonnina. Se non fosse per te non mi interesserebbe nulla di questa storia.

Entro però, devo entrare. Come potrei non farlo? Nonna mi ha lasciato questa roba sia mai, noi di Nazarè onoriamo sempre chi non c’è più.

C’è questa porta intarsiata che mi fa pensare che, se ci entro, torno indietro nel tempo.

Che tipa che era nonna. Vissuta per 97 anni sul mare. Mettici pure che è quasi primavera e la terrazza della biblioteca Joanina dà su tutta la città di Coimbra e il sole scalda le ossa. Alla fine non è tanto male qui, pure meglio di Lisbona mi sa. Ma i soldi stanno là. È che mi manca Nazarè. Le onde, la spuma in cielo, l’energia. Entro va’, che sono sempre di corsa, persino oggi che sto qua per nonna per questa cosa che ancora non ho capito. Devo rientrare a Lisbona presto che attacco a lavorare alle ventidue, quello stronzo di Agostinho mi scala i soldi altrimenti. In quella macelleria di merda. Dai che taglio carne e carne e ossa e carne e sangue. Secondo me a Agostinho gode quando smembra i pezzi interi di animale. Mi sono pure dovuto pagare il viaggio fino qua, che nonna non aveva un euro.

Vabbè, forse esagero. Povera nonna, mi manca come le onde di Nazarè che da bambino mi riempivano gli occhi.

Attraverso la piccola porta, non quella enorme che mi evocava le biblioteche da film. Quella è l’uscita. Entro dalla porta d’ingresso per chi ha il ticket online.

Mostro il biglietto sul telefono, quest’uomo scuro con i denti gialli, la maglietta dello Sporting Lisbona, ’sto sfigato con uno scanner legato al collo tipo guinzaglio mi fa cenno di entrare. Il posto è questo. Il notaio, all’apertura del testamento, mi ha consegnato questo verbale. Con la morte di nonna divento proprietario di un tomo storico della biblioteca Joanina di Coimbra. Mia nonna lo ha lasciato proprio a me, l’ultimo vivo della famiglia. Mia madre, sua figlia, è morta di parto. Per colpa mia, anche se nessuno l’ha mai detto ma certe cose le senti dentro. Cerco in tasca, tasca dietro, lo tiro fuori. È ingiallito il verbale, poi scritto a penna. Boh. C’è pure la lettera allegata che ancora non ho letto. Devo leggerla, credo. C’è tempo in biblioteca o dopo. Le ultime parole di nonna voglio leggerle a compito eseguito, il mio modo di dirle addio per sempre. E se non si sbrigano a trovarlo, gli dico che io sono di Nazarè e che sono cresciuto tra le onde, che fa sempre un certo effetto qui da noi. Mi viene da sorridere. Ma poi che volume avrà lasciato nonna? Dio mio, mi sfrego le mani.

Supero il controllo. A destra, dice un cartello, c’è la prigione. A sinistra la biblioteca. A sinistra la scala che va su sale verso una porticina di legno, a destra c’è un passaggio senza porta da cui intravedo una sala spoglia.

L’uomo con lo scanner è sparito. Sono l’unico visitatore. L’ingressetto ha sul muro davanti a me dei segni, piccoli incavi che mi sembra siano fatti con uno scalpello. Riguardo a destra, poi a sinistra. Cerco il telefono. La visita dura venti minuti. Chiedo del tomo dopo alla fine, all’uscita, magari vale pure qualcosa. La visita me la faccio al volo, questa storia del tomo mi uccide di curiosità.

Sei stato dentro la biblioteca più antica d’Europa e non hai fatto il giro dentro, avevi la fretta dei ragazzini? Tutti così mi diranno.

Io sono di Nazarè, io surfo non galleggio. Rispondo così se mi dicono qualcosa. No e no. Mi vedo pure la prigione, a questo punto sto qua e me la vedo. Me la giro, me la godo, un regalo di nonna ecco, mi connetto con lei. Il telefono non ce l’ho più in tasca; mi tocco, non è neanche nella giacca. Strofino i pantaloni e le tasche, quelle dove di solito metto i documenti quando viaggio, niente. Non c’è più niente.

La saggezza, dice la scritta sul muro sopra i buchetti fatti a mano, ha costruito per te questa fortezza.

Ah però.

Tocco tutte le tasche surfando con le mani. Niente. La porta da cui sono entrato dove l’uomo mi ha fatto cenno di procedere, adesso è chiusa. Forse si chiude da sola dopo aver fatto entrare i visitatori. Il visitatore, in questo caso. Devo chiedere a qualcuno di aiutarmi con telefono e documenti, forse mi sono caduti. Ma il telefono lo avevo in mano. Apro la porta, muovo la maniglia, si incastra. Spingo con più forza ma resta bloccata, non scorre. Busso piano, temo di sembrare maleducato ma in effetti sono da solo chiuso in un luogo pubblico, amen. Busso forte, grido:

– Aiuto!

Non abbastanza convinto. Mi chiedo se sono davvero in pericolo. Alla fine il luogo è pubblico, mi apriranno.

Mi apriranno, dai. Busso, do pugni alla porta. Ci sarà un’uscita d’emergenza.

O forse no. Mi do due pizzichi sulle guance, due schiaffi, mi strofino il viso. Mi siedo. Chi me l’ha fatto fare? Qua a perdere tempo. Il pavimento in legno è duro, mi appiattisce il sedere e la schiena si curva. In mano ho solo il verbale per il ritiro del tomo e la lettera di nonna. Ora davanti ho la porta d’ingresso sbarrata. Non mi resta che l’entrata per la prigione o quella per la biblioteca. Forse è il caso di andare dritto verso la biblioteca.

Se poi non torno e mi perdo? Chissà quanto è grande. Forse meglio aspettare qui. Ci vogliono due ore per Lisbona, madonna santa ho da scuoiare le tre vacche di Pedro e rompere le teste di agnello. Agostinho mi ucciderà.

Piangere non piango ti pare? Poi, però, le mani mi formicolano. Che fastidio. Un odore di muffa mi prende il naso, bagna le narici, la testa diventa pesante e poi tutto si fa buio.

Il prigioniero

Il giovane uomo avanza a calci. Ha i piedi nudi, le caviglie rosse di sangue rappreso. Avanza ogni calcio di due passi. Non vede bene per via del buio e per occhi gonfi e bollenti. Il resto del corpo ha freddo con i brividi. Nei cunicoli della prigione fa freddo. Intravede le mura grigie, sfocate; in fondo è buio, la luce arriva da qualche lanterna appesa al soffitto. Prende un calcio sul coccige, dritto, di punta. Avanza ancora strusciando i piedi.

Una porta arrugginita cigola e viene aperta. Il ragazzo spinto dentro non sente dolore, per quanto tutto il corpo sia diventato un puntaspilli. Due mani grosse e calde premono sulla sua schiena quanto basta per farlo cadere a terra. Di nuovo il cigolio e la porta si richiude.

Le pietre lisce sulla pancia gli raffreddano ancora di più la pelle. Vorrebbe strusciarci i bulbi pulsanti che sono diventati i suoi occhi per le botte. Si gira, ci prova. Struscia il corpo come farebbe un verme fino a immaginare di essere un verme, molle e umido. Sulla pelle violacea, con la giusta pressione, fa in tempo a fermarsi un istante prima del dolore. Dopo qualche prova, quel freddo sugli occhi in effetti gli restituisce un sollievo appena accennato.

Scotta così tanto la carne che non ricorda come abbia fatto a finire lì. Ma sa che non parlerà del libro. Crede poi, senza quantificare quanto, di essersi addormentato per diverse ore.

Non c’è distinzione dentro la cella tra il giorno e la notte. Ma il libro lo visualizza bene, al sicuro. Ma non importa adesso. Conta solo il dolore degli occhi a fessura che, dopo il sonno, sono appiccicati tra sangue secco e croste. Per aprirli deve passarci le dita gonfie con delicatezza, fino a sentire l’aria passare tra le palpebre e svegliargli i bulbi come se ci appoggiassero su delle lame. Il sinistro sta messo meglio del destro. Lo capisce non tanto dal bollore più tenue a sinistra, ma perché ci vede meglio.

Ecco, il libro, sì. Non serve più averlo.

Si chiede, mentre tenta di alzarsi, se merita o meno di essere dove è, conciato come è.

Seduto spalle al muro, prova ad ascoltarsi. Respira giusto per capire se qualcosa è rotto. A tirar dentro l’aria tutto ok, a tirarla fuori, tra le costole, cresce e pulsa il dolore. Però respira.

Se l’occhio sinistro si abitua al buio, non ci sono feritoie o luce, l’unica fievole illuminazione arriva da due sbarre incastrate nella porta di legno, l’occhio destro tanto vale non aprirlo proprio.

Il soffitto è a cupola. Le mura intorno, a rettangolo, creano lo spazio per un letto e un pisciatoio. Ma non ci sono né un letto né un pisciatoio. Non c’è nulla. Chissà per quanto lo rinchiuderanno lì, chissà per quanto tempo la memoria giocherà dalla sua parte prima di abbandonarlo. Tocca le mura, sulle mani scivolano lisce. Sfila per tutta la stanza e il muro si interrompe solo quando incontra la porta. Gira più volte intorno al rettangolo, abbassandosi ogni volta un po’. Al quarto giro tocca la fine delle mura nel punto in cui inizia il pavimento. Passa le mani morbide, sembra addirittura pulita la cella. Tutto omogeneo, tutto simmetrico. Solo sul muro opposto alla porta c’è una piccola fessura, è proprio dove il muro incontra il pavimento. Ci entrano a malapena le dita. Continua il giro, ancora una volta omogeneo. Non c’è altro oltre la fessura. Deve infilarci le dita.

L’occhio si è ormai abituato, la cella è a tutti gli effetti priva di accessi oltre la porta. Quella fessura deve essere un buco asimmetrico delle pietre; l’aria è colma di umidità e gli bagna i polmoni. Sente un sibilo, un soffio appena accennato d’aria, guarda la fessura e si avvicina.

Il re

Quando il Re João è in sala nessuno può entrare. Fuori il temporale imperversa, i rami degli alberi roteano come fruste. Il Re João non vuole essere disturbato, non vuole essere visto in quelle situazioni lì. Lui è il Re illuminato, di certe questioni peccaminose è bene non discutere. Siede su una grossa poltrona rossa dentro la biblioteca. Joanina si chiamerà e passerà alla storia, sarà la più bella, la più grande ma soprattutto la più fornita. È quasi pronta.

– La cultura è pericolosa, – dice alla donna in ginocchio davanti a lui, – la cultura ti rende potente, la devi condividere o è come il denaro, ti incatena. Ma tu che ne vuoi sapere.

Intreccia le mani grandi dalle dita larghe tra i capelli della donna.

– Questa fortezza è il mio pargolo, è il mio biglietto per l’eternità. È costruita intorno alla conoscenza, – sospira. – Ho letto più della metà di queste migliaia di tomi.

Preme la mano con forza sulla nuca della donna che ha un conato di vomito.

– Questo è inammissibile per un Re.

La guarda.

Preme con ancora più forza. Un gorgoglio esce dalla bocca della donna. Re Joao tira la indietro la testa. La sala ha un soffitto alto a cupola in cui il legno è dipinto come fosse marmo. Rotea la testa seguendo il calore del ventre, migliaia di libri ruotano intorno a lui.

La mano preme, le gambe del Re João si stringono attorno al collo della giovane donna.

Intarsi e dipinti, scaffali pieni, oro a sorreggere le navate. Joanina è la biblioteca eterna, la più bella. Il Re stringe ancora le gambe e sembra fare ancora più forza.

Manca un solo libro. L’unico. Filosofia, botanica, storia e alchimia. Storia e botanica completi, tomi da tutta l’Europa dei secoli ’600 e ’800. Anche la filosofia è completa. Ma non l’alchimia.

Stringe le cosce, la donna geme, respira a fatica. Deve ritrovare quel libro. Non ha alcun interesse per la gloria che la costruzione della biblioteca gli garantirà, il suo cuore sa che così è incompiuta, lo sarà per sempre. Nessuno lo scoprirebbe ma lui sì e altri Re, forse, un giorno, potrebbero scoprirlo. Magari gli inglesi. O ancora peggio gli spagnoli.

La rabbia, se fosse liquida, si mischierebbe ora al calore che sale sul petto del Re e scivolerebbe sotto la pelle solcata da brividi.

L’umiliazione di aver creato una cassaforte di cultura da migliaia di tomi ma meno uno, deve essere pagata da altri.

Questa cortigiana, con qualche accenno di baffo, dal volto tuttavia luminoso e il grosso seno, è una delle tante. Non verrà di certo ricordato per questi capricci, dopo aver creato la biblioteca che racchiude il sapere dell’Occidente tutto.

Ma quel libro.

Come una furia esce fuori dalla bocca della donna giovanissima, si stringe i testicoli e per un istante, il tempo di chiudere gli occhi e il libro mancante scompare, diventa liquido e per un attimo se ne dimentica. Ma è un istante e subito dopo, di nuovo, il freddo della frustrazione gli rimpicciolisce l’orpello fino quasi a farlo sparire.

La donna resta in ginocchio con gli occhi chiusi, il Re sgrulla il piccolo pezzo di carne molle e si ricopre della palandrana reale. Estrae la spada. Con un movimento veloce, sciabola la lama in aria. La testa della donna si stacca dal collo al primo colpo e rotola a terra, si vede chiara la spina dorsale spuntare dalla carne. Qualcuno ripulirà tutto. Il Re si allontana dal corpo distogliendo lo sguardo e pulendosi il naso.

Il libro che cerca è nelle mani della famiglia di alchimisti borbonici più antica d’Europa. Lunghi viaggi per raggiungerli e trattare, lunghi inverni di attesa e ingenti somme d’oro proposte. Ma in tutto il mezzo secolo di fine 1200 d.C. a nulla sono valsi i tentativi. Gli basterebbe una copia, purché sia completa di tutte le informazioni.

Il Re João fa cenno a una guardia di ripulire e far sparire il corpo.

La biblioteca Joanina passerà alla storia quale magnifica fortezza di cultura, mentre i vizi del re saranno i segreti sepolti tra le mura.

Esce dalla grande sala per recarsi in quelle che un tempo erano prigioni. Lì dove ora alloggiano i frati, in cerca di ristoro per l’animo.

Il prigioniero

La porta cigola, si apre. Il prigioniero non ha idea di quanto tempo sia passato. Forse una notte. Forse una notte e un giorno. Una guardia lo prende per le braccia, poi gli prende il volto. In galeico-portoghese grida:

– Scrivi. Tutto.

Il prigioniero muove il collo in segno di rifiuto.

– Scrivi. O verrai decapitato.

Il prigioniero continua a scuotere la testa.

– Carta e penna. Hai una settimana.

Il prigioniero ricorda tutto a memoria. Ogni formula, ogni passaggio. Chiuso nella cella di pietra avrebbe potuto ripristinare tutto il trattato. Non se ne farebbero nulla uomini come loro, così vicini alle scimmie per intelletto. Ma lo uccideranno qualsiasi cosa faccia.

Inizia a scrivere. La luce appena presente gli permette di vedere le ombre delle parole, dei disegni. Ricorda tutto. La mano scrive, scrive fino a che il polso inizia a irrigidirsi. Il prigioniero non vuole addormentarsi, scrive le prime sei pagine vergando il primo foglio della sua firma. E resta in attesa. Il giorno seguente arriva scandito solo da un aumento lieve della luce che arriva dalle piccole grate sulla porta. Il prigioniero è seduto schiena al muro, bisbiglia formule con la bocca piena.

La guardia entra, il cigolio permette qualche secondo di tempo al prigioniero.

– Hai scritto?

Il prigioniero mastica.

– Apri la bocca. Dice.

La fiaccola illumina il corpo della guardia chiuso dentro un’armatura leggera. Un elmo raffigura la rosa dei venti e una grossa croce sul petto.

– Apri!

La fiaccola e la fiamma si muovono in aria e finiscono sul volto del prigioniero. Il ragazzo cade a terra con la bocca spalancata. La pietra è sempre fredda. La guardia prende il pezzo di carta sputato dal prigioniero.

– Che volevi fare? Dice.

Il prigioniero resta in silenzio, a terra. La testa gli pesa per lo scontro con la pietra.

La guardia raccoglie la fiaccola e controlla il calamaio. L’inchiostro è finito, ne restano poche gocce sul bordo della boccetta nera. Anche la carta non c’è più.

– Prendi. E scrivi. Sappiamo che ricordi, quindi scrivi o ti verrà tagliata la testa.

La guardia tira altra carta al prigioniero.

Così per una settimana, fin quando il prigioniero non scrive la fine. L’ultima formula completa di procedura per ottenere la pietra filosofale. Il prigioniero si alza in piedi appena sente i passi della guardia. Prende le carte scritte fitte, con una scrittura storta ma precisa, contornata da disegni esplicativi delle formule. Le piega, si spoglia dello straccio di pelle che ha intorno alla vita. Sente le chiavi girare dentro la serratura.

Ricopre le pagine nel cuoio fino e infila tutto con attenzione dentro la fessura tra pavimento e muro. C’entra a malapena. Tiene per sé solo un foglio di scarabocchi.

La guardia entra accompagnata dal cigolio della porta. Insieme a lui c’è un uomo grosso, più alto della guardia. Indossa un cappuccio, in mano ha un’ascia dal bastone alto quanto il prigioniero.

– Hai scritto?

Il prigioniero apre la bocca e mostra il foglio bagnato di saliva e ride.

– Lo hai voluto tu.

La guardia fa cenno al boia di avanzare.

– Ciarlatano, il segreto morirà con te, troveremo altre vie per la conoscenza.

Poi alza il braccio, cenno al boia di tagliare la testa.

Il boia, illuminato dalla luce della fiamma sulla torcia, solleva l’ascia.

Il prigioniero alza la testa, ha gli occhi verdi che brillano, la pelle olivastra e i denti anneriti, è nudo. Lo sguardo è perduto e fiero allo stesso tempo. Non c’è paura nei suoi occhi.

– Il libro è e sarà qui per sempre, il maestro è morto e maledetto chi oserà avvicinarsi per i prossimi mille anni a questa cella in cerca del mistero. Poi, bisbiglia parole in una lingua che boia e guardia non comprendono.

L’ascia si abbatte tra la sua testa e le sue spalle, decapitandolo.

Il sangue zampilla dal collo aperto del prigioniero, cola verso le mura della cella e schizza sull’armatura della guardia e poi sulla tunica del boia mentre tutto il pavimento diventa rosso.

Il Re

Re João batte i pugni sul muro. Si muove per le stanze dell’ex prigione. La pace di quei luoghi sembra lo abbandoni man mano che la biblioteca Joanina è pronta. Tutti i preti sono usciti. Un’unica stanza, piccola, in pietra è usata come studiolo dai pellegrini. Studiolo. Studiano all’ombra della sua ricchezza, della ricchezza di un Re spietato, certo, ma un Re che ha eretto il tempio della cultura più imponente d’Europa. Tutti devono goderne, tutti devono sapere.

E manca un libro. Il manuale d’Alchimia più importante di sempre. Re João desidera la cultura tutta per il popolo portoghese, desidera essere ricordato come un Dio che ha donato la conoscenza al volgo. Prende la sedia in legno, piccola, ordinata sotto al tavolo e la scaglia contro il muro. La sedia si spezza in due. Alza il piccolo tavolo da cui saltano croci, rosari, libri appoggiati alla rinfusa, saltano mentre si spezzano le gambe del tavolo. La furia si scaglia contro la piccola libreria addosso al muro. Altri libri saltano, gli occhi del Re João riflettono il caos della stanza come un caminetto riflesso in un vecchio specchio.

E pensare che lì, secoli prima, venne giustiziato proprio il pupillo, l’allievo diretto dell’Alchimista che scrisse il libro sulla pietra filosofale. Al pensiero, la pelle del Re bolle.

La libreria Joanina vanta migliaia di volumi. Ogni categoria, per volere suo, segue una regola di rarità dei libri. L’apice della sezione Alchimia appartiene al Corpus Hermeticus di Ermete Trismegisto. Quel volume completerebbe la collezione a disposizione del presente e del futuro. Lui ha fatto inserire un libro di nessun valore al momento, fingendo sia l’opera prima d’Alchimia. È troppo vecchio per poter sperare di ottenere la conoscenza suprema.

– Morì qui dentro, – grida il Re João, – lo giustiziarono e invece di strappargli la verità dall’intestino, lo decapitarono. Invece di succhiargli l’anima e tutta la conoscenza.

Scaglia i libri in aria, prende un pezzo di tavolo, una gamba e lo abbatte sui resti dei volumi e della sedia. Alza con tutta la forza che ha in corpo, per i suoi ottanta anni di vita ancora vigorosa, il baule con dentro le palandrane dei preti pellegrini. Lo alza e ne rovescia il contenuto. La fiammella della piccola lanterna sul tavolo si rovescia, prima di spegnersi, carbonizza una piccola striscia di muro a terra.

Il Re si ferma. Incuriosito, si avvicina e sente odore di sangue rappreso; sciolto dal calore, il liquido scopre una piccola fessura.

– Portatemi una torcia, subito.

Gli viene passata una torcia, il Re non guarda e la strappa dalla mano che gliela porge. Prende il legno e si gira.

Ho trovato qualcosa! Uscite, andate via.

La stessa mano che gli ha dato la torcia lo spinge. Il Re João perde l’equilibrio e cade a terra. La fiaccola vola e cade, spargendo cenere e fuoco incendiando gli abiti del re. Il calore divampa e sale scaldando le pietre fredde fino al soffitto.

Il Re João apre la bocca e grida. Poi si gira, si aggrappa alla porta.

La porta non si muove. La strattona. La spinge e la tira.

– Aprite! Aprite! Vi farò decapitare tutti. Tutti! Apri, guardia, boia! Aprite!

Nessuno risponde. Il fumo riempie la cella. Re João si tocca le mani, i libri bruciano, il legno inizia ad ardere e si mischia al fumo che odora di ciliegio.

In ginocchio, il Re porta le mani al collo, il fumo grigio gli occlude la gola. Si muove per alzarsi ma le gambe non rispondono. Dalla piccola grata intravede due occhi che si stringono:

– Il libro è e sarà qui per sempre, ci sarà sempre qualcuno a vegliarlo.

Il Re cade a terra, il rumore delle ossa del cranio sulla pietra supera il crepitio del fuoco. L’ombra dietro la porta svanisce.

Il surfista

Mi alzo, la testa mi gira. Mi tocco i pantaloni, ho di nuovo tutto con me, telefono e documenti. Devo essermi sentito male, il forte odore di umido. Forse un attacco di panico di quelli che non sai spiegare bene, ce li hai e basta e non capisci più niente. Va tutto in tilt e bum. Telefono e documenti sono sempre stati con me. Eccoli, sì, sì.

Mi siedo. La porta d’uscita è aperta. La maglietta ce l’ho appiccicata alla pelle, sudata.

La lettera di mia nonna. Non l’ho ancora letta, direi che è il momento. Testa di gallo, mi direbbe lei. Provo a leggerla? Seduto a terra, la prendo tra le mani. A questo punto la apro.

Caro nipote mio,

questa lettera passa nelle tue mani ora che io non ci sono più. È bene tu sappia oggi che erediti qualcosa di importante.

Non c’è nessun libro che ti aspetta alla biblioteca Joanina. Non è quella l’eredità. C’è molto di più.

Tu non lo sai, nessuno in vita oltre me ormai lo sa e ora spetta a te custodire questo segreto.

Noi siamo eredi di una dinastia di boia. Forse sorriderai. La nostra famiglia, per secoli, ha ucciso persone: colpevoli, innocenti, traditori, untori, uomini, donne. Gli uomini della nostra famiglia sono boia dall’epoca medievale.

Custodisco io questo segreto adesso perché figlia unica, come la tua povera mamma morta di parto. Ho disposto questo testamento alla tua nascita dopo la morte di tua madre. Questa lettera sarebbe finita solo in mano tua, se fossi morta quando eri bambino avrebbero dovuto attendere la maggiore età per consegnartela.

Un tuo avo decapitò l’allievo diretto, il pupillo di Ermete Trismegisto, il più grande alchimista di tutti i tempi. Avvenne in quelle che ora sono sale museo, ex prigioni aperte al pubblico. Un tempo, prima che Re João, il re che voleva la cultura per il popolo, non fece costruire la biblioteca Joanina di Coimbra, lì c’erano solo prigioni.

Il giovane allievo, da quanto viene tramandato dai nostri avi, sul punto di morte, maledisse per mille anni chiunque si fosse avvicinato alla cella in cerca della stesura del Corpus Hermeticus. Dopo la decapitazione ci furono un susseguirsi di conquiste di Coimbra, vari popoli passarono di lì e la cella venne bandita e abbandonata e ripristinata solo secoli dopo da Re João, come dimora di preti pellegrini di passaggio a Coimbra. Re João morì proprio in quella cella, venne ucciso, e solo i nostri avi conoscevano il motivo e lasciarono che la sua morte venne liquidata come un incidente. Ventidue anni fa sono scaduti i mille anni. E tu ormai sei fuori da questo conteggio, puoi accedere alla conoscenza. Non temere, non sono le follie di una vecchia pazza, segui le mie istruzioni.

Nella cella deve esserci un meccanismo, qualcosa per poter accedere a quanto scrisse il pupillo prima di essere decapitato.

Egli gridò davanti al boia, il nostro avo, che il libro era lì e sarebbe rimasto lì per sempre. Gli scritti lasciati in eredità alla nostra famiglia dicono che l’allievo scriveva e ingeriva la carta per burlarsi delle guardie, e che non lasciò nulla.

Ma si tramanda anche del suo sguardo prima di morire: prima che l’ascia del tuo avo gli tagliò la testa, il giovane guardava in un punto preciso del muro. Il tuo avo non si avvicinò più alla cella e la guardia morì pochi anni dopo. La nostra discendenza è l’unica ad avere custodito questa informazione.

Fai così: recati alla cella più piccola, dovrebbe essere l’ultima a sinistra senza uscite. Sentirai una pressione, la sensazione di costrizione e oppressione dovuta alla dimensione esigua della cella e alle pietre. Cerca. Tocca i muri, tocca tutto. Forse in basso, come in alto. Io credo a questa storia, credo alle carte ereditate che ho letto e ho bruciato personalmente per non rischiare finissero in mani sbagliate. Ho tenuto solo questa lettera che ora arriva a te.

Se trovi davvero qualcosa devi ricordare di portarla subito dalla prigione alla biblioteca. Quel libro deve essere sugli scaffali riservati all’Alchimia, posizionato in alto. La conoscenza è vana, ricordatelo, se non la si condivide o se la si cela per avidità. Non aprirlo, non leggerlo. Lascialo in dono alla biblioteca. Sia il pupillo che il Re commisero l’errore l’uno di voler custodire il sapere per sé, l’altro di volerlo divulgare per rimanere nella storia come un Dio. Fai la scelta giusta, nipote mio. La scelta giusta. Posizionalo dove deve stare e in cuor tuo saprai che la biblioteca Joanina è compiuta, o andrà tutto in fumo. Buona fortuna.

Non ho bevuto, non sono ubriaco. Agostinho non mi ha menato, non mi sono drogato. Leggo la lettera una seconda volta, piano. Mi alzo. Era pazza mia nonna? Mia nonna che mi scrive una roba del genere.

Mi guardo intorno, non è alta stagione, non c’è nessuno. Mi gratto il naso e mi aggiusto i pantaloni. Fa freschino. L’entrata delle prigioni. Ex prigioni.

Mi ci fiondo. Dio che roba, anche per uno di Nazarè questa notizia è più potente di un’onda gigante di quelle nostre. Vero o no, ci provo, ma che mi frega. Nonna, nonna!

A questo punto vale la pena controllare. Sono piccoli i corridoi, mi sembra. Arrivo fino in fondo all’ultima cella. Che ansia, madonna. Pietre su pietre, è piccola, troppo piccola.

Io non ci credo che davvero sto cercando ‘sta roba, che neanche ho capito bene. Tocco le pietre, fredde. Tocco una pietra alla volta. Fredde tutte.

Ma che cazzo posso trovare qua dentro? Fortuna che non gira nessuno, sai che figura di merda, beccato a strusciarmi sulle pietre. Tocco a terra. Pensa se mia nonna, o qualcuno che l’ha tramandato, ha contato male. Magari è vero ma non sono passati mille anni e io muoio fulminato.

Sorrido. Doveva essere un libro e invece sto qua a rotolarmi dentro a una cella. Santo Dio. Speravo pure valesse qualcosa, il fantomatico libro ereditato. Mi mettevo due soldi da parte e via.

Tra muro e pavimento, tra due pietre, qualcosa è più morbido, diverso da tutto il resto al tatto, lo sento.

Tiro fuori dalla tasca una penna. Vedi tu che mia nonna dice il vero nella lettera.

Sento dei passi. Cazzo. Se mi faccio trovare così sai che figura, rischio pure che mi buttano fuori. Mi alzo di scatto e metto le mani in tasca con tutta la penna.

Entrano due giapponesi. Con due fotocamere grosse più delle loro facce. Sorrido. Levatevi dal cazzo. Ma non si levano, vogliono che mi levi io. Ma non hanno capito. Io sono qui per conto di nonna. Di Trismes, Trimeg, Magistro o come cazzo si dice. Sono un pelino agitato e quando sono agitato vado in tilt.

Prego, dico con gli occhi e con il movimento delle mani. Mi metto di lato.

‘Sto giapponesino mi fa cenno di scansarmi, di togliermi proprio. Sorride.

Bestemmio con gli occhi, che più o meno è mostrare più bianco possibile e far sparire le pupille. Esco.

Aspetto. Sento i click di almeno quindici foto. I due nani escono, mi sorridono e si perdono nei corridoietti.

Musi gialli fino qua in Portogallo.

Rientro. Penna alla mano, gratto ’sta fessura. Da che non volevo, ora sono eccitato come una scolaretta. Viene via una colla lattiginosa. Direi che sembra sangue rappreso, quello che vedi nei film. Boh. Vedi che ha custodito bene il segreto il “pupillo“ ma pure quel boia del mio avo e pure tutti quelli dopo.

Spero di non morire.

Via, viene via. C’è una fessura davvero. Dio santo.

Gratto la profondità di cinque dita o poco più. Sento la penna toccare il duro della pietra ai lati e mi fermo.

Ci metto la mano. Altri passi, cazzo. Mi alzo in piedi e mi giro e lascio i talloni appiccicati alla fessura. Una ragazza. Sola. Le sorrido. Lei mi sorride. Dà un’occhiata alla cella, a me, al soffitto e alza i tacchi. In effetti non c’è un cazzo qua dentro, a parte i miei occhi spiritati.

Bene. Mi fiondo a terra.

Infilo la mano con forza, le dita impattano qualcosa di solido, cuoio. Tiro l’oggetto, lo incastro tra le dita, lo schiaccio come posso e sfilo. Un pezzo di cuoio arrotolato e pressato viene fuori.

Nessuno in giro, avvicino il cuoio e lo metto sotto la felpa. Torno all’ingresso camminando per i brevi cunicoli a ritroso.

Lo apro. No, no, no, lo metto dove mi ha chiesto mia nonna. Come ha detto lei. Anzi, lo apro. Ormai la maledizione non vale più. Lo apro. Ma ha detto di no, cazzo. Cazzo.

Mi siedo nel cortile davanti all’ingresso. Respiro. Alla fine si tratta di scelte. Io voglio vedere cosa c’è dentro ma voglio pure lasciarlo lì al suo posto, senza che nessuno sappia l’importanza del mio gesto. Questo è. Cazzo. Mi alzo. Però voglio sapere. Vedere. Sbircio e poi lo metto a posto. Mi siedo di nuovo.

Apro il cuoio. Sì, cazzo. È indurito da secoli, lo muovo piano fino ad aprirlo del tutto. La carta è una carta millenaria, sottile e delicata come cartilagine scoperta. Ma dopo mille anni, il contatto con il sole e il movimento e non più al sicuro nel cuoio, si sgretola in mille piccoli pezzi. Uno sbuffo di vento ne spazza via gran parte, puff svanisce nell’aria.

– No, no no no.

Intorno i pochi ora presenti sul piazzale mi guardano.

– No, cazzo. No! Mi alzo in piedi.

Nulla più. Mi resta solo qualche angolino polveroso irrecuperabile. Resto in silenzio, seduto sul piazzale. Mi scende una lacrima. Il sole inizia a calare dietro la collina che abbraccia Coimbra; ho gli occhi rossi, la notte avanza e io ho mandato tutto quanto alla polvere.

Il racconto è finito, qui puoi dirmi la tua o chiedermi cose in privato



#2 Il Caffè del Diavolo

Racconto pubblicato “Dentro la lampada”



L’ ex studente è tutto un grazie professore, certo professore, dovreste vedere che struttura quel “Colombia selected” professore.

Seduto al tavolo, il professor Castelli lo osserva bere un americano decaffeinato. Ha denti gialli e la fronte perlata. Non gli è mai andato a genio quel tipo. Un noioso lecchino, pensa il professore mentre brindano con il caffè. Il giovane è il nuovo responsabile biochimico presso un’azienda di cui Castelli ha già dimenticato il nome. E speriamo mi lasci andare il prima possibile. Pensa.

In meno di un’ora si congedano, poco da ricordare oltre il disprezzo per lo “specialty coffee”, qualche pacca sulla spalla e il suo conseguente nervosismo. Castelli quando si eccede con il contatto fisico suda.

Finalmente solo.

Prima di rientrare al paese dove vive con i risparmi di varie consulenze e con una pensione da ex docente, fa tappa al suo vecchio studio.

La sala è come l’aveva lasciata mesi prima. Taccuini sulla scrivania di ciliegio, libri, riviste. La piccola Moka di metallo sul fornello a gas da campeggio. Tutto coperto da una coltre di polvere. Chicchi di caffè ovunque, crudi, tostati, aperti a metà.

Guarda la posta a terra ammucchiata a intasare l’uscio. C’è una lettera tra un depliant pubblicitario di una macchina per caffè in cialde e una rivista del settore bar.

– Ti fai una vita di studi e che diamine mi mandano ‘ste riviste oscene? Pensa. La lettera poi lo distrae.

La cattedra di chimica alimentare gli ha garantito un’esperienza decennale al controllo qualità di multinazionali del caffè; così immagina sia un’altra proposta di consulenza da torrefazioni avviate o neo-nate in cerca di analisi chimiche delle miscele da scegliere.

Scarta la lettera, anche questa volta sarebbe stato il compenso a fargli accettare o meno il lavoro.

Castelli considera, senza far nulla per nasconderlo e digrignando i denti, le multinazionali del caffè oscene macchine di produzione di denaro e cibo massificato. Ma si deve pur campare, dice toccando la lettera.

Al tatto la carta esterna risulta diversa rispetto alle solite missive cui è abituato, spedite di solito da tirocinanti con le mani sudate, questa è più spessa, aromatica, chiusa da un timbro in cera lacca a forma di chicco di caffè.

Annusa a fondo. Per un miope che ci sente poco l’olfatto è tutto. I polmoni si gonfiano in cerca con il tatto di indizi sulla provenienza. Un prurito di sentori di spezie e caffè tostato. Il timbro si sgretola. Africa. Odore di Africa senza dubbio.

Legge strizzando gli occhi:

“Egregio professor Castelli,

a fronte di una lunga ricerca, lei è risultato idoneo per la consulenza desiderata da Sir Francis Mac Hamay.

La missione per cui è desiderato è finalizzata a una ricerca privata di Sir Mac Hamay nell’entroterra Kenyota. Il compenso per la sua consulenza è di trenta mila euro, di cui quindicimila come anticipo e il restante a progetto terminato.

Si tratta di una ricerca di cui Sir Mac Hamay è unico promotore, le verrà spiegato tutto di persona poiché non è gradita la divulgazione di notizie sull’intervento.

Troverà allegato l’assegno con l’anticipo e un biglietto per Mombasa. Sir Mac Hamay crede non servirà più di una settimana di lavoro.

Il volo è per la fine di aprile, siamo certi riceverà questa lettera in tempo per potersi preparare.

Al suo arrivo troverà un accompagnatore di nome Hope ad attenderla per portarla a pochi chilometri da Kakuna, al confine con l’Uganda.

Sir Mac Hamay sarà lieto di averla presto qui in Kenya.”

– Africa! – Esclama.

La lettera a piè di pagina riporta un timbro siglato da una firma. Trenta mila euro. La data accanto al timbro postale è del quattro aprile; è il ventisette del mese, con buone probabilità è troppo tardi.

Rovista nella busta della lettera, l’assegno spiegazzato e il biglietto aereo a suo nome sono lì. La partenza è per il ventinove di aprile. Prende le sue cose ed esce dallo studio.

Castelli spende la notte a camminare in soggiorno, sorseggia il suo rum preferito, un Don Papa invecchiato 12 anni. Al fresco di quella casupola si sente al sicuro e la decisione arriva veloce.

Accettare così a scatola chiusa non è da lui. Non ci penso neanche, chi l’ha mai sentito Francis Mac Hamay .

Il giorno successivo incontra un vicino per la solita partita di briscola. Smazza le carte distratto, perde le prime mani.

– Oggi non sei di buona eh?

– Cazzo, ecco dove l’ho visto! – Dice. Al secondo giro di briscola il professore lancia il mazzo, si alza, saluta il vicino e corre via.

Nel suo studiolo cerca la rivista “Caffeine”, il numero di marzo è appoggiato sopra una pila di libri. Eccolo lì. Un trafiletto piccolo nella sezione “Orizzonte Africano”.

“Ricco proprietario terriero acquista piantagione di caffè nella zona di Kakuna per via di una leggenda millenaria.”

L’articolo parla di passione del magnate e della leggenda di un caffè di qualità eccelsa in quella zona, nulla di più. Non ci sono altri nomi o informazioni, Castelli riconosce nell’unica foto dell’articolo un sacco pieno di caffè con lo stesso logo in cera lacca presente sulla busta che ha ricevuto. Ci pianta il dito.

Di nuovo il pensiero del denaro. Nel dubbio, prima della briscola, in banca ha chiesto un controllo sull’assegno. Con il direttore Castelli chiacchierano di caffè e vecchiaia, ogni mesi lo interroga per controllare se il contro è tutto ok e così tra una battuta e un espresso l’assegno è risultato coperto.

Esce di casa, indossa una giacca e salta dentro le scarpe ed è di nuovo in banca. Conferma di voler versare l’assegno sul conto.

Trascorre la giornata a selezionare le camicie color sabbia da portare con sé, i bermuda e qualche medicinale anti diarroico.

Capitava in viaggio se la facesse nelle mutande senza quasi accorgersene se non fosse per il calore che sale su dal cavallo. Ma la decisione più importante è la scelta dei libri.

Sceglie “Il lamento di Portnoy” di Philip Roth e “ Niente caffè per Spinoza” di Alice Cappagli. Poi “L’isola del tesoro” di Stevenson. John Silver, il temibile pirata, gli ricorda ciò che lui non è.

In taxi Castelli riflette sulla generosità della somma. Per una settimana è una proposta senza dubbio appetitosa, può significare solo due possibilità: un alto rischio per la sua incolumità o un’elevata complessità del progetto da sviluppare.

E poi per “Francis Mac Hamay” Google non da risultati.

L’aeroporto è coperto da nubi color ambr, Castelli ricorda il viaggio più avventuroso tra le sue esperienze passate mentre supera il controllo documenti e si avvia verso il pulmino che lo porterà al Boeing che lo attende in pista.

Fu molti anni prima quando gli commissionarono infinite analisi tecniche su una piantagione di caffè Blue Mountain.

A commissionare il lavoro fu una multinazionale Lussemburghese desiderosa di acquistare un appezzamento di terra giamaicano; l’azienda evitò di condividere l’informazione più importante del progetto, il terreno si trovava sotto l’egemonia di una tribù giamaicana autoctona.

Sul posto Castelli e lo staff furono aggrediti più volte. Il lavoro venne sabotato e la permanenza del professore dai due mesi pattuiti divenne di quattro, poi una costola rotta, una relazione con una giovane giamaicana e la solita, immancabile, diarrea.

Chiude la pagina di Google dato che anche declinato per assonanza il nome Mac Hamay non suggerisce riscontri. Stesso esito per il timbro a forma di chicco di caffè, non fosse per una storica azienda romana che tosta caffè che ha un logo simile ma non uguale, su internet trova solo l’articolo di “Caffeine”.

Le hostess della compagnia KLM servono con gentilezza del rum, mediocre pensa Castelli. Per non parlare del caffè.

Il fatto che una compagnia di bandiera di una nazione con migliaia di caffetterie a terra serva a bordo acqua da bidè, è orrendo.

Castelli nota un’assistente di volo osservargli gli aloni di sudore ai lati della camicia, e chiude d’istinto le spalle a guscio.

Avrebbe voluto avere più informazioni sull’entroterra keniota.

Sulla cultura chimica relativa alla terra spazia ben oltre i confini italiani, ma mai ha messo piede in Kenya, per giunta al confine con l’Uganda.

Però ha riconosciuto la provenienza della lettera dall’odore, il suo naso continua a essere attivo e regolare come la sua diarrea e il suo sudore da stress.

Accenna un sorriso e in silenzio sorseggia altro rum in cui non trova altro che note alcoliche, una vaniglia leggera al massimo. Disgustato guarda fuori dal finestrino.

L’idea di essere stato precipitoso lo fa grattare ripetutamente dietro la nuca.

Ho accettato per i soldi, curiosità. E se ci rimango? E se è una truffa e quel tipo vuole che io dica falsità per dare senso all’investimento? E se mi ricatta? Guarda le pellicine intorno alle unghie martoriate dai morsi.

Ripensa a quando venne colto dal timore di non essere all’altezza di un lavoro in Norvegia. Era atteso all’università di Tromso per tenere un corso circa l’ ”aging” di alcune tipologie di caffè. Le paure gli causarono diverse scariche di diarrea. Rimase seduto sulla tazza del cesso degli arrivi dell’aeroporto di Tromso un’ intera ora, per poi decidere di tornare in Italia la sera stessa.

Non è questo il caso, non è questo il caso, non è questo il caso. Non è questo il caso. Lo ripete tanto da farsi sentire dall’uomo seduto davanti a lui che si aggiusta sul sedile. E giù altro rum.

L’aereo atterra all’aeroporto di Mombasa in orario. Castelli ha la pelle umida attaccata alla camicia, gli occhi gonfi intorpiditi dalla pressione mentre si sciacqua il viso con l’acqua di una bottiglietta.

Al ritiro bagagli un giovane africano panciuto lancia valige da un carrello di legno verso il centro della grande sala degli arrivi.

L’aeroporto è fermo agli anni ’80. Fili elettrici simili a liane fluttuano nel vuoto, muri scrostati, guardie di servizio annoiate in divise militari, sudate, giocano con cellulari che in Italia a occhio e croce sarebbero appartenuti ad almeno mezza generazione precedente.

Per il visto d’ingresso Castelli sborsa cinquanta dollari, posa per una foto segnaletica a pochi centimetri da una vecchia webcam e scarabocchia una firma su un documento d’ingresso. Compila il documento spuntando il quadratino del turismo quale motivazione del suo viaggio in Kenya.

Ad attenderlo, come scritto nella lettera, c’è il giovane autista che di nome fa Hope. Ha un sorriso bianco che brilla sulla pelle nera e levigata, in mano ha un cartello con scritto a tratti incerti il nome Castelli Professore Signore. Castelli sorride. Fa un cenno al giovane che è subito pronto e raddrizza la schiena.

Il professore stacca la camicia fradicia dalla pelle, sente un brivido sul bagnato. Saltella sul sedile, il ragazzo guida sicuro ma molto veloce.

Costruzioni diroccate intorno all’aeroporto contornano le strade dissestate, Castelli guarda curioso tra cumuli di plastica e rottami di vecchie auto, dove incurante della mano umana cresce una fitta vegetazione autoctona che, un giorno, si impossesserà di nuovo della terra pensa il professore. Hope schiva una cassa in mezzo alla strada e svolta in una piccola strada interna.

L’aria condizionata fredda la schiena sudata del professore, lui si allontana dallo schienale e cerca con le mani di asciugarsi sventolando la camicia.

La vecchia Mercedes, osserva Castelli che tasta i sedili, ha non meno di quindici anni. Una carcassa blu dagli interni beige consunti. L’odore di legno e tabacco, probabilmente del luogo, gli intasano le narici mentre Hope sorride, scala la marcia e accelera.

Ad accartocciarsi per primo è il tetto. Poi seguono schegge di vetro e tutto è sotto sopra più volte e più volte. Il rumore di lamiere stride quando la macchina esce di strada e si ribalta sulla terra arida.

Castelli apre gli occhi. La testa gli gira, il naso gli sanguina e sente scendere il liquido caldo e denso sulla pelle. D’istinto strattona il corpo di Hope per svegliarlo.

– Dai amico suvvia non fare scherzi.

Altro strattone.

– Non puoi morirmi così, rispondimi.

La voce in falsetto, il sangue ora è in bocca. Hope non risponde perché è morto, strilla una voce dentro la sua testa. Morto!

In strada è notte, la lucina interna della Mercedes e la luna sono le uniche fonti di luce. Castelli si tampona l’orecchio con le dita, il sangue gli scivola sui polpastrelli. Anche il sopracciglio sanguina. Ricorda di aver battuto più volte tra finestrino e tetto, finestrino e tetto, tetto e finestrino. Ma è vivo.

Si tocca il corpo fino a calmarsi quando ogni arto, giuntura, osso, cartilagine risultano intatti ma indolenziti.

Impregna la camicia beige di sangue e sudore per asciugarsi. Devi pensare. Devo pensare. Più cerca di concentrarsi, più guarda il corpo senza vita di Hope. Decide di frugare nella tasca del morto, ma prima cerca conforto nel suo taschino. Eccola. La piccola e deliziosa boccetta di rum scadente sfilata alla hostess sull’aereo. Esce forzando la portiera e fa il giro di ciò che resta dell’auto; non ha mai visto un uomo morto. Le gambe che gli tremano a vista d’occhio che qui non si regge in piedi.

Il ragazzo non ha più di vent’anni. Un vetro del parabrezza gli si è conficcato in un occhio, la testa ricoperta di sangue è riversa sul sedile, le dita di entrambe le sue mani sembrano spezzate.

Il sudore si fredda, lo stomaco si contrae e il senso di oppressione al petto spinge Castelli ad arretrare di qualche passo per vomitare.

Si pulisce la bocca con la manica prima di tornare al suo adoperarsi con la camicia sudata di Hope, questa volta senza guardarlo. Il corpo ancora caldo mantiene piccole gocce di sudore incollate tra pelle e stoffa; il telefonino, un vecchio Ericsson 2g è nel taschino, acceso e funzionante.

La mano trema, apre il telefono e spinge il pulsante delle chiamate. L’ultima è a un numero non salvato, le altre riportano la dicitura Mum e Sophia.

Tenta con il numero senza nome. Sta per spingere il tasto “Call” quando una macchina della polizia locale si accosta alla Mercedes. Benedetta polizia.

I due grossi poliziotti sono tutto un parlare tra di loro. Guardano lo sfacelo dell’incidente e parlottano, bisbigliano e guardano Castelli intento a sorreggersi tra le lamiere.

– Do you speak english? Do you speak english?

Un no con il volto.

Una vertigine. Si avvicinano, sono salvo. Imbracciano entrambi il fucile, Castelli prova a scandire la parola “help” ma il colpo arriva secco, il calcio del fucile gli finisce dritto sul volto, un vuoto alle gambe, il naso sanguina e il fiato si accorcia, poi è buio.

Castelli apre gli occhi, di nuovo. Perché ha accettato questa lavoro? perché? Vomita bile e l’ alcol che ancora non è evaporato nel sangue.

– Salve Professor Castelli.

Il professore muove la testa, si guarda intorno, il secondo conato svanisce. Ti fai un giorno di viaggio, ti cappotti in Africa schiantato su un albero, vedi un morto, prendi una fucilata sul naso e ora che succede?

– Sono Sir Francis Mc Hamay. Mortificato per l’arrivo rocambolesco. Il mio assistente Hope ha perso la vita, una disdetta. E credo vi abbiano derubato.

Derubato. Mi hanno derubato. Pensa Castelli prima di parlare.

– Derubato?

– Sì. Non vedendovi arrivare, Melanie, la mia cuoca, mi ha portato sul percorso che porta fin qui a ritroso verso l’aeroporto. Ho trovato lei svenuto sulla strada, Hope senza vita e la mia Mercedes distrutta. Una delle Mercedes, sia chiaro, ma comunque distrutta. Mi dovrò occupare della famiglia di Hope. Altro non c’era, dubito lei abbia viaggiato privo di bagagli.

– I documenti, il visto!

– Ma dove sono finito per Diana?

Mentre si lamenta, suda. Fin da ragazzo lo riteneva un motivo di imbarazzo. Ora con l’abitudine lo sopporta.

– Si calmi, è un miracolo sia vivo. Ora, capisco lo spavento, ma nessuno vuole farle del male. Dobbiamo metterci a lavoro.

– A lavoro? Non ci penso proprio. Per favore mi lasci rientrare in Italia. Le restituirò la caparra, mi pago il biglietto e lei è come se non mi avesse mai visto.

Castelli prova ad alzarsi, il vomito è più potente delle vertigini. Rovina a terra in una poltiglia di bile dall’odore acre con note di alcol.

Sir Mc Hamay non si muove. Abito di lino, scalzo, barba curata e occhiali da vista dalla montatura spessa e ricercata, resta immobile. Gli occhi, piccoli, non comunicano alcuna emozione. Castelli ne osserva da terra il cerchio nero che contorna l’iride.

– Professore. Come suggeriva anche lei, non ha documenti per via del furto e l’urto sul lato della testa le causa vertigini che, per fortuna, svaniranno presto. Al momento posso aiutarla a ottenere in tre giorni un visto di uscita per rientrare in Italia. Prenda queste pasticche, poi parliamo di lavoro.

– Tre giorni? La polizia, ha chiamato la polizia? li ha avvisati?

– Stia calmo professore, davvero.

L’olfatto per Castelli è basilare e dall’incidente sembra sia uscito intatto. Respira la stanza con tutti i polmoni aperti.

L’aroma di caffè, il glicine, un denso sentore di banane e terra umida sono gli odori che tra un conato e un moto d’ira ricompongono lo straccio cui è ridotto. Segue gli aromi, scova un lieve odore di cera lacca ma su tutti, non può confondersi, coglie un odore importante di zolfo.

Si alza con attenzione reggendosi al tavolo.

– Che pillole sono?

– Antidolorifici professore, nulla di più.

Gli occhi dell’uomo sono fissi, impassibili. Castelli prende le pillole, il dolore è in tutto il corpo, concentrato sul volto. Barcolla, si muove, respira.

– Non ha nulla che con una bella dormita non si possa curare. Mi segua.

L’ ampia stanza in stile coloniale è illuminata da candele, la pancia di Castelli borbotta. Quel borbottio è un preludio all’inferno, esistono richiami corporei che l’esperienza trasforma in consuetudine. È bene non ignorarli pensa.

Si trascina dietro Sir Mac Hamay, l’uomo ha un passo svelto, deciso, a tratti sembra sfiori il pavimento. Castelli è uno sfacelo, lento, sporco e pronto a riempirsi le mutande di diarrea.

Un’ enorme cucina accoglie il professore. La parete è tutta un cimelio di caffettiere italiane, turche, macina caffè di bronzo, d’argento, di ferro e Castelli è certo di intravederne uno d’oro.

– Vede professore. Il caffè è la mia vita. Conosco ogni pianta, ogni aroma, i colori delle ciliegie che crescono, i sentori di chicchi crudi e tostati, le forme, le mani ruvide che li colgono. Io coltivo caffè perché il caffè racchiude la vita e la morte. Conosco ogni leggenda che narra la sua origine. Ed è per questo che lei è qui. Deve trovare la prima pianta di caffè della storia. La prima in assoluto.

Il professore a malapena si regge in piedi. Ma quel tono, quella voce che è un filtro di certezza granitica è una freccia di adrenalina nel cuore. Un altro crampo forte e deciso gli attraversa la pancia.

– La prima pianta di caffè? – Chiede Castelli.

Poi riflette. È un ciarlatano? dovevi chiedertelo prima di accettare i suoi soldi, dovevi rimanere a casa e forse, ma solo forse. Cretino, ingenuo, imbecille.

Finisce sempre con il parlare a se stesso e a rimproverarsi, fin da bambino.

– Se si sta chiedendo perché di me non ha mai sentito parlare, è perché la conoscenza scorre nel sottosuolo. Non ho mai amato apparire, preferisco studiare e fare ricerca privatamente. Questo per tranquillizzarla.

Ecco lì che il dolore prende il controllo del basso ventre. Castelli sente quel calore che conosce bene scaldare la pelle e annacquare i boxer.

Quanto all’imbarazzo, tra sangue sudore e diarrea, Castelli quasi si sente in dovere di restare. Fa un cenno, tossendo, di dove andare al bagno. Sir Mac Hamay indica una porta dalla parte opposta della cucina dove Castelli si dirige camminando sbilenco.

Il bagno è alla turca, l’acqua esce da una pompa a mano. I pantaloni sono salvi, è ciò che conta. Si spoglia, per quanto sia degradante la situazione, inizia a sentirsi meglio. Toglie i boxer li arrotola e li lascia dentro un piccolo cestino. Con difficoltà pompa un po’ di acqua sulla mano per sciacquarsi; era un ragazzino quando questo problema ha iniziato a manifestarsi. Guarda tu se devo cagarmi sotto per tutta la vita. Altro che diarrea del viaggiatore.

Concluso il rituale, raggiunge Sir Mac Hamay sperando l’uomo non si sia accorto di nulla.

– Tutto bene, professore?

– Sì. Mi sento meglio, ho solo un po’ di vertigini. La seguo.

Fuori dalla casa coloniale gruppi di moscerini ronzano intorno alle lampade a olio. Intorno la luna brilla.

È sempre e comunque emozionante andare all’origine, pensa Castelli.

La raccolta, l’estrema attenzione nell’eliminare i chicchi verdi, la ricerca certosina. La divisione di seme e frutto prima del lavaggio e dell’asciugatura al sole, all’aria, la natura che forgia il sapore. Poi la spazzolatura per levigare i contorni ed eliminare la polvere d’argento. Quanto romanticismo c’è nel caffè? si chiede. La mente scivola sull’accurata separazione che segue la spazzolatura, la scelta di chicco in chicco per dimensione e integrità.

Che raffinatezza, che cura si può raggiungere dentro una tazzina.

Poi dalla fase ancora verde si passa all’invecchiamento, ma non sempre, quindi alla tostatura o “bronzatura” come solo lui nel settore è solito chiamare l’arrostire aromatico dei chicchi di caffè; l’apoteosi, il climax ascendente del puro godimento.

Poi segue l’insaccatura, le varie analisi fino a una bella macinatura. Castelli ha un ingrossamento nel basso ventre. Ogni volta è lo stesso, quando torna all’origine si rivede pezzo per pezzo il percorso del chicco e gode. Meglio di portarsi a letto una donna.

– Conosce la leggenda del Dio Waqa professore? – Mac Hamay interrompe l’idillio.

– Sì, ne ho sentito parlare. Se non erro, la tribù degli Oromo narra di un uomo che rifiutò una lunghissima vita predetta dal Dio Waqa poiché non gli bastava, voleva l’eternità. Il rifiuto e l’arroganza suscitarono l’ira del Dio intento a ristabilire l’ordine cosmico quando ancora sulla terra regnava il caos.

Waqa lo condannò a morte. L’uomo fuggì ma la maledizione lo raggiunse dopo un lungo viaggio e il cuore gli si fermò di notte, in una radura dove quattro uomini stavano scavando una fossa. Morì su un terreno dove nascevano pregiate piante di caffè.

Giorni dopo Waqa si pentì della decisione crudele e corse sulla tomba dell’uomo, vedendo il suo corpo senza vita per colpa sua versò lacrime che irrorarono la terra nutrendola, e su quella stessa terra il caffè acquisì proprietà curative, venne considerato una vera e propria medicina dalla tribù. Se le piante normali di caffè germogliano dall’acqua, qui nascono dalle lacrime di un Dio.

– Sì, più o meno è questo. Conosce anche il luogo dove giunse l’uomo in fuga?

– No, questo non credo sia menzionato nella leggenda.

– In occidente arriva ciò che deve arrivare. Dall’Etiopia l’uomo in fuga ha attraversato il confine con il Kenia fin qui a Kakuna. Ho acquistato questo appezzamento perché la tomba è qui.

Castelli teme di perdere conoscenza di nuovo, di avere una scarica di diarrea così forte da inondare tutta la piantagione e seppellire per sempre la tomba, la piantagione, tutto. Sempre che esista la tomba. Per Diana, devo credergli?

– C’è un problema, motivo per cui ho bisogno di lei professor Castelli. – Mac Hamay estrae un accendino e arrostisce del tabacco speziato affumicando la notte limpida e afosa.

– Mi segua.

I due si inerpicano nel profondo della vegetazione, in alto la luna tonda appare gentile. Gli odori sono africani, di terra, di frutta, di caffè crudo. Di vita.

– Solo la prima pianta germogliata dalle lacrime di Waqua ha proprietà benefiche, cura i mali dell’uomo.

– Per Diana! Ne è certo?

– Professore. Suvvia. Per chi mi ha preso? Acquisto novanta ettari di terreno senza essere certo dell’investimento? Io non dubito della sua intelligenza, lei non sottovaluti la mia.

Castelli sorride, consapevole che il tono della sua voce sia uscito come il grido noioso di una poiana.

Superati grossi banani a protezione della piantagione, altre piante di caffè rigogliose si stendono a perdita d’occhio.

Mac Hamay sospira. Ha un’espressione colta e ingenua insieme, i suoi occhi tradiscono una spietata caparbietà, sono incrinati da rughe che ricordano una mela ammaccata caduta dal tavolo senza fare rumore. In lui dimora un vuoto ancestrale nota Castelli.

– E io come posso aiutarla? – Chiede il professore ormai arreso all’idea di un’ affascinante follia. Agnostico, scettico dal liceo, razionale. Figuriamoci. Pensa grattandosi.

– Come le ho detto, deve trovare l’arbusto germogliato nel luogo esatto della leggenda. Le bacche hanno una forma simile all’arabica ma oblunghe, narrano gli abitanti del posto. La pianta è della famiglia della Coffea Canephora, ha fiori rosso fuoco e non bianchi. Sono certo sia qui.

Castelli sente il bagnato della camicia sulla pelle. Negli occhi il dubbio brilla. Quel vecchio è curioso. Perché impiega tante risorse per una pianta che con ottime probabilità non esiste?

Si asciuga la fronte di continuo, piccoli moscerini gli restano appiccicati sulla mano.

– Dubito esista una pianta del genere.

– Non mi chiede, piuttosto, perché la cerco? – Domanda Mac Hamay.

– Ha voglia di dirmelo?

– Non sono tenuto, ma credevo le interessasse.

– Se vuole sono tutto orecchie. Altrimenti rispetto gli accordi.

– Professore, l’ho scelta tra tanti anche per la sua nota discrezione. Cosa ho da perdere? Ho un male incurabile, invisibile, ed è un miracolo sia in piedi. Quella pianta è la mia ultima speranza.

Se sei abituato a osservare, lo vedi negli occhi delle persone il dolore, come il vuoto. Ma quegli occhi nascondono altro, custodi di un barlume troppo vivo per essere solo speranza. Lo aiuterò, pensa Castelli, almeno per lasciarlo morire in pace o per scoprire se mente. E poi trentamila euro, insomma, ecco.

Castelli guarda a terra, cela un’imbarazzante emozione di curiosità per il fascino della proposta di quell’uomo, così austero e fragile da mettere su un gioco del genere per una fantomatica pianta di caffè.

– L’aiuterò, gliel’ho detto. Mi dispiace per la malattia. Ha una zona circoscritta dove cercare?

– Sì, siamo quasi arrivati.

La luna in Africa splende di luce argentata, illumina la vegetazione tutta intorno restituendo scure tonalità di verde vive come in nessun altro luogo. Il suono di scimmie si perde tra banani, piante di caffè e in lontananza distese di foreste. L’odore di mango marcio misto a zolfo arriva dritto dentro le narici del professore he arriccia il naso. Ora che la situazione è chiara, la pancia sembra in ordine.

I due si fermano nei pressi di un fascio di terra dove le piante di caffè sono meno fitte, grossi arbusti e piante gonfie di ananas contornano la zona.

– È qui. Ho circoscritto questa zona scartando il resto dopo mesi di ricerche. Qui cresce la pianta che ha con se la linfa delle lacrime di Waqua. Le altre, come le accennavo, sono piante di qualità ma prive di qualsivoglia potere. Le ho analizzate, toccate, osservate ma sembrano tutte uguali. Mi smentisca la prego.

– Farò il possibile per capirci qualcosa.

– Grazie professor Castelli. Grazie. È tempo di riposare, domani se il suo fisico lo permetterà vorrei trovarla in prima linea.

Quella notte, in preda al recupero dei postumi dell’incidente, Castelli sogna il Diavolo che si avvicina silenzioso nei pressi della piantagione. Lo prende per mano, ha la pelle rugosa, lo trascina al centro del terreno e scava una fossa profonda, Castelli lo segue, desidera seguirlo, non ha paura, è curioso. Scendono. Scendono nel profondo; terra, acqua, caldo, scendono ancora più giù, buio. Poi una luce potente, il Diavolo si gira e…

La sveglia suona quando il sole ancora deve alzarsi del tutto. Dolorante e affamato Castelli raggiunge la grande cucina; frutta e carne essiccata lo aspettano sul tavolo.

La giovane cuoca già in divisa gli comunica che Sir Mac Hamay non sarà disponibile per tutta la giornata e che lui può iniziare il lavoro senza attenderlo.

Castelli annuisce e si affretta a consumare la sua colazione. Ama lavorare da solo.

Mi sento meglio. Le ossa sono intatte, la pancia in equilibrio. Forse questi soldi non saranno così difficili da ottenere.

Veste la sua camicia più leggera di lino acquistata a Milano mesi prima. Di giorno la piantagione ha tutto un altro potere e bisogna combattere il caldo. Sono giorni di fioritura, deve aver piovuto. Conosce tutte le varietà di piante di caffè al mondo, al pensiero di una pianta curativa sorride.

Osserva arbusti vigorosi, puliti, le foglie sono di un verde intenso che riverberano l’alba, lucide e sane, carnose; sono piante alte quasi quattro metri in barba alle difficoltà di raccolta, ragiona Castelli.

Le distanze rispettano le proporzioni per arieggiare bene tutta la piantagione, la pulizia del terreno è incredibile, il professore stupito da tanto rigore sgrana gli occhi strusciandosi il capo per asciugarsi la fronte. Fiorellini bianchi tutti intorno vivacizzano il paesaggio, mentre alcune piante danno luce alle prime “ciliegie verdastre”. Castelli ne coglie una, la drupa contiene due semi di arabica avvolti da una sottile pellicola argentea. La tiene tra le mani, la odora, la tocca e la odora di nuovo. È sempre una prima volta.

Suda un po’, espira; l’ansia, lo stress, quel suo essere compulsivo svaniscono quando si immerge nell’analisi del caffè.

La ricerca è meticolosa. Una pianta alla volta, odore e tatto più che i colori sono i fattori utili per Castelli. Di anomalie neanche l’ombra.

Di pianta in pianta si fa sera, poi giorno di nuovo e le ricerche si ripetono. Per tre giorni Mac Hamay non si fa vedere. All’alba del quarto giorno eccolo sulla porta della cucina, il volto scavato e vigile, gli occhi velati da un’apparente morte certa.

Forse sono suggestionato dal racconto della malattia, si può mica vedere la morte negli occhi di un uomo. Per Diana.

Sul tavolo della cucina l’occhio di Castelli nota le copie dei suoi documenti e di un visto.

– Come procede, professore?

– Ancora niente. Oggi ho l’ultimo quarto di terreno del luogo che mi ha indicato. Una domanda, la leggenda dice che l’uomo in fuga trovò quattro uomini ad attenderlo.

– Sì.

– L’uomo arrivò proprio mentre i quattro scavavano una fossa, vero?

– Sì professore, così si tramanda. Perché?

– Ho un’idea.

– Mi dica Castelli, la prego.

– Venga con me, potrebbe essere il giorno giusto.

Il cielo scuro preannuncia un potente temporale, da ovest i due sentono tuoni rimbombare. Castelli ha la pelle asciutta e lo stomaco allineato.

Oh, per offrirmi trentamila euro quest’uomo deve avere una notevole considerazione di me, o forse è solo disperato. Però c’è un’aria appiccicosa e densa che mi sta dando nuova linfa vitale, per Diana. Incespica tra cespuglietti e radici mentre aumenta il passo.

Si strofina le mani.

Le prime gocce li colgono all’ altezza dell’ultimo pezzo di terra da supervisionare.

Mac Hamay lo guarda. Castelli resta fermo.

Piove un acquazzone violento, estivo, di quelli che fanno risalire subito l’odore di terra. Castelli si guarda intorno, annusa, osserva. Aspetta.

– Professore, allora? – Grida Mac Hamay per sovrastare il suono della pioggia.

Castelli non risponde. Non si muove. Respira.

– Professore, mi sente? Professore!?

– La leggenda. – Grida Castelli. – Narra del Dio Waqa che “vede” il corpo senza vita dell’uomo. Vede. Come può vederlo se è sepolto in una tomba come la intendiamo noi? non può vederlo, giusto?

– Ha senso. Potrebbero però averlo lasciato fuori i quattro uomini.

Gli occhi di Mac Hamay si muovono veloci, Castelli nota un lampo che non aveva colto durante l’incontro del primo giorno.

– Bene, ho controllato i rituali funebri degli Oromo. Sa dove si svolgevano?

– No.

– All’interno di cripte sotterranee. Credevano in questo modo lo spirito del defunto potesse albergare nel sottosuolo e rendere feconda la terra.

– Castelli. Lei è un genio. Ma come ho fatto a non pensarci. E come lo ha scoperto?

– Ricerche… diciamo. E un inconscio che lavora sodo.

La pioggia li inonda, le gocce sfilano veloci sulle foglie delle piante di caffè.

– Cerchiamo una cripta sotterranea. Se esiste, la pioggia ci aiuterà. Con il terreno molle possiamo osservare irregolarità o solchi e scavare.

– Professore, la credevo scettico. Ma ora dalla voce non si direbbe.

– Lo sono. Ohh se lo sono. Non troveremo la sua pianta, ma vale la pena tentare.

I due si guardano intorno, il terreno è morbido, bagnato. Castelli si blocca.

– Lì! – Grida. – Guardi!

Il dito indica un’irregolarità tra le piante. Il terreno della piantagione risulta ben livellato, ma ora che la pioggia ha movimentato la terra, in un preciso lembo le piante dai fiori bianchi sono a una distanza le une dalle altre maggiore rispetto ai calcoli delle altre zone, come se lasciassero spazio nel terreno a un’entrata, una discesa.

La pancia, la vedesse il gastroenterologo, la vedesse ora. Potrei mangiare sassi e rettili e andrei di corpo come un re, pensa.

I due si avvicinano al perimetro e iniziano a scavare senza parlare, Castelli osserva la fatica nel respiro di Mac Hamay.

Le mani si tagliuzzano, tra polpastrelli e unghie si accumula terra. La pioggia continua a battere e per due ore scarse i due scavano. Ma a un certo punto si fermano.

– Ci siamo, è una botola! – Esclama Castelli.

In un’intera vita dedicata al caffè, mai avrei pensato di trovarmi a cercare una cripta sotterranea preso da un furore adolescenziale.

Con forza scoperchiano la botola che scricchiola sotto la pioggia.

Un odore nauseante di zolfo, lo stesso già percepito da Castelli nei giorni precedenti, fuoriesce dal buco. L’odore ha un retrogusto dolciastro, una pungenza di caffè crudo.

Piccole scale di legno danno ragione al professore.

– La cripta!

I due tossiscono colpi di tosse secca per grattarsi la gola. Il tanfo è così denso da chiudergli il respiro per i primi istanti.

– Aspettiamo qualche minuto che esca un pò di questo odore. Rientro in casa a prendere due torce. Lei non entri professore, non entri.

Mac Hamay lancia uno sguardo dritto negli occhi di Castelli e con passo svelto va e torna con due legni belli robusti in pochi minuti, Castelli sente l'odore di cherosene di cui sono impregnati gli stracci all’estremità delle torce. Le accendono vedendole divampare in una fiamma morbida e luminosa.

– Entriamo.

Castelli avanza. Pensa e avanza e ha paura. Ma se pensi, se pianifichi, la paura la fermi, incatenata non si muove. I pensieri sono un cuscino in cui soffocare il grido della paura. Cosa troveremo? È pericoloso? ci saranno serpenti o scorpioni? È la scoperta del secolo? sa che non sarà così. Però che colpo trovare la cripta.

Scendono le scale, raggiungono una stanza rettangolare; le luci delle torce creano semicerchi luminosi nel buio, roteandole l’attenzione scivola sulla parte opposta all’entrata.

Di Mac Hamay a malapena si percepisce il respiro, ha la bocca aperta e gli occhi spalancati anche se lo sguardo tradisce la paura della delusione. Segue il professore come un animaletto in cerca di cibo.

Alcune candele consumate e spente contornano una pianta di caffè alta poco meno di un metro. È dentro un vaso. Singolare, pensa Castelli.

Puntano dritti le torce sulla pianta. Fiori rosso rubino riflettono la luce, due drupe d’oro, oblunghe, pendono dalla pianta. Le foglie sono di un rosso pastello striate da venature di bronzo.

– È lei! È lei Castelli. L’abbiamo trovata! – Grida Sir Mac Hamay stirandosi i capelli.

– Curerà il mio male, verrò ricordato per sempre, passerò alla storia per aver trovato la prima pianta di caffè al mondo Castelli!

Mac Hamay ha i muscoli tesi, lo sguardo vigile, stringe la torcia. Castelli suda di nuovo ed è così confortante sentire gocce di sudore che anche lo stomaco gorgoglia. Non adesso, non adesso, non adesso.

– Che devo fare, cosa devo fare?– Sussurra.

Tra le ombre create dalle torce danza la sagoma della pianta.

Mac Hamay si fa avanti, i muscoli del viso disegnano un’espressione arcigna, rabbiosa. Senza curarsi del professore strappa una drupa, la apre e manda giù un chicco crudo. All’istante la pelle si tira, le pupille si dilatano, il petto si gonfia.

– Lunga vita! Lo sento, lo sento, sento la forza della pianta! Se ne vada Castelli, vada via, la pianta è mia, mia è l’eternità! – Grida brandendo la torcia infuocata.

Castelli lo fissa e dentro la pancia sembra si sia attivata una lavatrice, la voce dell’uomo sembra provenire da un luogo profondo, suona avida, scarna.

Devo andarmene. Devo prendere la pianta. Devo prenderla per studiarla. Pensa Castelli che si muove veloce, si ricorda di quando il padre, avvocato di successo, screditava la sua passione per il caffè. Può cambiare la storia, dopo anni può far tacere la voce del padre che anche dalla tomba sembra continui a chiamarlo “professorino”. Afferra la pianta. La pancia geme, una fitta lo colpisce.

– Non adesso per Diana.

Guarda Mac Hamay scomposto in una smorfia di dolore che fende colpi con la torcia nel vuoto. Dalla bocca gli esce della schiuma e senza rendersene conto, con movimenti incontrollati, incendia il legno che sorregge la struttura della cripta.

Castelli corre verso le scale, dietro di lui il fuoco divampa. La pianta è velenosa, pensa.

Le fiamme crescono veloci, Mac Hamay è a terra, grida, brucia mentre Castelli è punto da un senso di colpa misto a vergogna. Il fumo si fa nero.

Sale le scale in legno e fango, alle sue spalle la cripta crolla ma tra le dita percepisce la pianta, è eccitato, trema, la vita mai gli aveva offerto un’opportunità simile. Rotola fuori rovinando a terra con la pianta ben stretta tra le mani, la tiene in alto come se qualcuno gli avesse suggerito di non fargli toccare terra.

Si guarda indietro, poi guarda la pianta e si alza per allontanarsi, la pioggia ha smesso di battere lasciando zuppa la terra.

Appena in piedi i muscoli del viso del professore si ritraggono, il corpo sente prima della ragione cosa sta accadendo alla pianta stretta nella sua mano. Così la guarda. I fiori che erano di rosso rubino ora sono scuri e impalpabili, creano un vortice uno a uno e si polverizzano in aria mentre il gambo appare squamato e striato di venature nere. La drupa rimasta è ammuffita, si sgretola tra le sue mani. Sul palmo due semi di caffè si liquefanno, colano via dalla pelle del professore come viscose lacrime desiderose di tornare a nutrire la loro terra.

Castelli guarda il cielo, tra le mani gli resta solo un po’ di terra, neanche l’odore di caffè. Respira nell’aria un sentore di cenere misto a fiori carbonizzati che subito svanisce, perdendosi nel torbido caldo africano.

Il racconto è finito, qui puoi dirmi la tua o chiedermi cose in privato



La Macchina del giovane Saleri

Secondo classificato al premio letterario “Charles Bukowski”



Il progetto di tesi di laurea proposto dal giovane Galileo Saleri passò alla storia per l’ilarità generata nell’ambiente accademico. I giorni prima della discussione e nei mesi successivi a essa non si parlava d’altro.

L’ilarità era impreziosita da un sottile stupore di cui però non vi è accenno nei registri universitari, né in alcun quotidiano della città.

Il laureando Saleri scelse come relatore il professor Mario Reali, insegnante alla cattedra di fisica quantistica della Sapienza di Roma da quasi due decenni.

Il professore era conosciuto per il suo approccio innovativo alla materia, da sempre deriso dagli accademici tradizionali per le sue teorie riguardo a wormhole artificiali, curvature spazio temporali variabili e studi di condizioni quantistiche, era certo sarebbe stato in grado di proiettare l’individuo oltre la fisicità umana conosciuta; Reali era, per queste ragioni, avulso alle correnti conservatrici dell’ateneo.

Considerava i gangli culturali dell’università un groviglio di teorie obsolete, espresse in un pensiero comune mai davvero evolutosi.

Egli navigava fuori dagli schemi della fisica con entusiasmo, assentandosi dalla sua stanza in accademia durante le pause stagionali per lunghi periodi senza comunicarne ragioni o notizia a nessuno. Questo alimentava non poco le voci altisonanti sul suo conto circa astrusi esperimenti e rischiosi tentativi.

Ora, il sostegno del professor Reali a un laureando dal progetto definito ridicolo e pretenzioso al solo sentirne parlare, fu un gesto così lontano dalle consuetudini accademiche che, finalmente per gli anziani baroni, il consiglio universitario sarebbe potuto intervenire e radiare dall’albo l’insegnante in modo definitivo.

Il giovane Saleri, originario di una buona famiglia romana, risultava essere un tipo solitario e malmesso. Era appassionato di tutti gli ambiti esoterici legati allo spazio e al tempo fin da bambino. Il giorno della sua discussione, oltre a una struttura singolare progettata insieme al professor Reali, di cui richiese la presenza, non volle nessun altro dei suoi pochi affetti nell’imponente aula magna dell’ Università.

Saleri consegnò l’elaborato definitivo all’imbrunire di una giornata ventosa, pochi giorni prima della discussione. La giovane donna che ritirò i moduli non gli diede molto spago, avendo il giovane una fisicità tutt’altro che gradevole.

In poco tempo, il lavoro giunse al professore che avrebbe presieduto la commissione d’esame. Quando lesse il titolo della tesi, sfogliandone le pagine in maniera approssimativa, quasi divertito, rise confermando l’ilarità di cui si era cibata la ristretta cerchia di docenti dell’ateneo durante le ultime settimane.

Passò quindi il progetto, bollato come ridicolo, ai suoi colleghi ingessati in lunghe toghe nere. Tutti risero di gusto, quasi volessero cavalcare l’eco della risata del presidente per compiacerlo.

Nessuno, com’era lecito aspettarsi, si soffermò però sulla precisione dei disegni contenuti nel progetto, sui calcoli quantistici dettagliati con annesse note esplicative, o sui valori geometrici chiari e coerenti attribuiti a una curiosa curvatura dello spazio con tanto di disegno.

Anche loro lo bollarono come il lavoro di un insegnante dalla condotta vergognosa, manipolatore di un ragazzino credulone e affascinato dall’occulto.

Gli allegati tratteggiavano schemi con archetipi attualizzati in quarzo e rame, progetti di un rettangolo in grado di trasferire tra cateti e ipotenusa un’energia tale da scomporre la materia umana e ricomporla in un luogo e in un tempo definiti da un algoritmo dettato dall’uomo. Il tutto egregiamente spiegato nella disquisizione cartacea.

Il viaggio nel tempo” s’intitolava il lavoro.

Le voci tra le cattedre raccontavano che Saleri avrebbe dimostrato, fisicamente durante la discussione, la possibilità di viaggiare attraverso lo spazio-tempo.

Lo scherno dei professori, sosteneva il professor Reali durante gli incontri con l’euforico Saleri, non condensava solo superficiale ilarità ma nascondeva una densa sfumatura di timore. Per la giovane età del ragazzo, questo sembrava un concetto complesso da intendere.

Reali, con accuratezza, gli spiegò che uno scienziato, per quanto arcaico e conservatore potesse essere, non avrebbe mai disdegnato completamente un collega in grado di ragionare fuori dagli schemi ordinari. Perché uno scienziato, anche se definito pazzo, avrebbe potuto avere intuizioni in grado di cambiare il corso della storia. Insomma avrebbe potuto aver ragione.

Questa è la magia della scienza, ripeteva il professore dagli occhi brillanti e vivi dritti negli occhi di Saleri.

Quest’ultima considerazione alimentava l’entusiasmo del giovane come non mai.

Il giorno della discussione arrivò un freddo venerdì d’inverno, alla fine di Febbraio. Le toghe nere si riunirono sullo scranno dell’imponente aula magna della Sapienza, silenziose. Le sedute alle spalle del laureando erano vuote, era solo come richiesto.

Il professor Reali, visibilmente frenetico, muoveva le mani con nervosismo. Osservava il grande macchinario assemblato nel centro dell’aula magna dopo il tramonto del giorno precedente, ora coperto da uno spesso telo grigio. Era stato smembrato in varie parti e trasportato sul vecchio furgoncino Volkswagen del professore, suddiviso in pezzi pesanti caricati dal laboratorio su un carrello della spesa fino all’ampio portabagagli del mezzo. Il laboratorio, caro ai due inventori, era uno scantinato dove da mesi testavano i meccanismi per sfidare il tempo.

– In barba alle teorie obsolete e ai baroni universitari!

Avevano impiegato sei ore durante la notte per ricomporre lo strano macchinario nella sala della discussione.

Dopo un breve pisolino sul furgone, il giovane Saleri ritornò in aula pochi minuti prima delle otto. Era pieno di carte arrotolate sotto il braccio e la tesi in mano, scivolava veloce con un’andatura dritta e la schiena ricurva. Il professor Reali l’abbracciò appena lo vide.

L’introduzione del lavoro non durò più di pochi minuti, entrambi desideravano passare alla dimostrazione pratica. Saleri, con un gesto deciso, sfilò il telo che copriva il macchinario.

Alla vista dell’oggetto, i professori bisbigliarono tra loro.

Il metallo della piramide rettangolare luccicava, rifletteva in maniera sformata i profili del professore e del giovane in piedi ai lati dell’oggetto.

Il macchinario non superava i due metri. La punta ne faceva da apice come una stretta piramide, la larghezza raggiungeva poco meno di un metro e mezzo mentre il contorno degli spigoli in ottone sembrava affilato come una lama. A contornare l’abitacolo, spessi vetri offrivano un’idea di resistenza e solidità ben saldati tra loro. Il parlottio dei docenti sullo scranno non accennava a scemare.

Il professor Reali tirò verso l’alto la lastra di vetro che funzionava da portellone e si mise alla destra del giovane Saleri, già accomodato all’interno del triangolo. Entrambi, sistemati sulle sedute e con gli occhi luminosi di eccitazione, iniziarono ad armeggiare con la plancia piena di piccole leve e quarzi, digitando codici su una tastiera algebrica e tastando le decine di spie collegate a fili di rame ben visibili.

In pochi istanti, le carte e i libri sullo scranno della commissione si alzarono in un vortice d’aria.

Dal motore incastonato ai piedi della piramide, fuoriuscirono due potenti sbuffi che impregnarono la grande sala di un odore salmastro con note di cherosene.

Questi fatti ineluttabili riuscirono ad attirare l’attenzione della commissione che, tutto a un tratto, ammutolì.

Quando poi, in un lampo, la piramide generò un campo elettromagnetico, il rumore di ferraglia crebbe a tal punto che tutti i professori portarono le mani alle orecchie per attutire il frastuono.

Il professor Reali e il laureando Saleri si scambiarono uno sguardo d’intesa e tirarono insieme, con forza, la grossa leva di metallo incastonata tra i due sedili dei passeggeri.

Fu un istante. Una frazione di secondo in cui la luce generata dalle onde elettromagnetiche divenne accecante e il cronografo sulla plancia impazzì. I muri vibrarono, mentre alcuni dei vetri delle antiche finestre, affrescati con cura, andarono in frantumi a seguito di un ultimo scoppio poderoso. E tutto tacque.

Lo scricchiolio causato dalla pressione dell’acqua sul vetro destò Saleri. Il ragazzo aveva il collo dolorante e le spalle rigide, al suo fianco il professore giaceva privo di conoscenza. Il giovane, stordito, strofinò con forza le mani sul viso e quando tirò su la testa per capire la provenienza dello scricchiolio, cacciò un urlo di terrore.

A pochi centimetri dal vetro, Saleri notò un essere che solo in parte ricordava la fisionomia umana.

Era molto alto, sembrava superasse il metro e novanta. La pelle alternava lembi di carne a squame bluastre trasudanti minuscoli riverberi verde smeraldo; il volto umanoide oblungo aveva la bocca più ampia del normale, quest’ultima storpiata in una smorfia che mostrava bianchi denti aguzzi e sottili.

Gli occhi, posti lateralmente sul viso, erano distanti a sufficienza per lasciare spazio a un naso deforme dalle cavità rosate e sovradimensionate.

Aveva la fisionomia di un uomo. Le mani mantenevano i tratti tipici della nostra specie, ma le dita erano unite da cartilagini sottili utili con buone probabilità per il nuoto; lo stesso valeva per i piedi.

Saleri, terrorizzato, rimase vigile e provò a destare il professore con forti schiaffi sul volto. Al movimento del giovane, l’essere estrasse da una cordicella legata alla gamba destra un lungo corallo rosso e lo piantò nel vetro con violenza.

Il corallo andò in frantumi. Colpito dall’esito inaspettato, l’uomo pesce nuotò via veloce.

Uno scenario epico spiccò non appena l’essere si mosse e il giovane Saleri potè mettere a fuoco il panorama tutto intorno a lui.

In preda a panico misto a euforia provò a strattonare di nuovo il professore ma nulla, l’uomo non dava cenno alcuno.

Sulla plancia la bussola sembrava impazzita con l’ago in continuo movimento, ma ad attirare l’attenzione del giovane furono due enormi carcasse di cetacei galleggianti che sfilavano davanti alla navetta. Ebbe l’impressione, per un istante, che quell’orribile uomo-pesce si fosse rintanato al loro interno.

All’orizzonte vide ciò per cui il suo cuore rischiò di fermarsi.

Resti di case e costruzioni sommersi dall’acqua salina e da alghe viscose giacevano sul fondo del mare, strade divelte immerse nel silenzio dell’abisso oceanico si snodavano come fiumi sotterranei battuti da abnormi granchi dalle chele spropositate, mentre una luminosa barriera corallina di colore rosso rubino brillava tra le finestre frantumate di alti grattacieli abbandonati da secoli.

Il ragazzo mise a fuoco ossa simili a scheletri umani incastrate nelle taglienti tonalità di rosso dei coralli.

Provò ad alzare lo sguardo ma la superficie del mare era molto lontana e non riuscì a percepire nulla oltre l’immenso blu. Giungeva solo, flebile, la luce del sole.

Elettrizzato dalla scoperta e pieno di paura tentò di mettere in moto il dispositivo di trasporto della macchina.

In quel momento la bussola e il cronografo sembrarono stabilizzarsi. Lo stupore del giovane crebbe quando si rese conto di essere nel punto esatto di partenza, le coordinate erano identiche a quelle dell’aula magna all’interno della città universitaria.

Intorno, pochi metri sotto la macchina triangolare, la lenta discesa negli abissi gli permise di intravedere i ruderi di un vecchio edificio. Credette plausibile immaginare che fossero i resti dell’università.  Aveva funzionato, il suo esperimento era riuscito, ma erano finiti nel futuro e non nel passato. Si mise le mani sulla bocca come per trattenere un grido.

Fu in quel momento che il professor Reali si destò.

Si guardò intorno, agitato. Correnti subacquee si levarono nel silenzio del mare trainando la capsula triangolare ormai prossima a raggiungere il fondale. All’improvviso un forte stimolo, probabilmente un fiume subacqueo, spinse in rotta orizzontale il vettore spostandolo di diverse decine di metri a ovest.

Il professor Reali capì in un istante che l’esperimento aveva funzionato e che i suoi calcoli erano corretti. Nel futuro, il mare avrebbe inghiottito il mondo conosciuto.

In lontananza, una grande dorsale oceanica si stagliava a poche centinaia di metri da un burrone. Lì intorno, il professore e il giovane Saleri intravidero un enorme edificio sventrato ricoperto di alghe e avorio; dalle dimensioni e la forma pensarono alla stazione Termini della loro città. Riconobbero a stento altri tratti della loro epoca, ma nessuno dei due fiatò.

Aggrovigliato a ciò che restava dell’edificio, intravidero una grossa massa lattiginosa di colore nero opaco che lenta cingeva le mura, aveva dimensioni mai viste pur ricordando le classiche seppie.

Fu l’immagine che si presentò loro quando toccarono il fondo a lasciare un segno sinistro nell’animo di entrambi.

In lontananza si accorsero di un gruppo numeroso di uomini pesce, simili a quello visto dal giovane Saleri poco prima, la compagnia si accaniva contro un loro simile più gracile rispetto agli altri e privo di un arto. Nuotavano in vortice colpendolo con coralli affilati per finirlo. Era chiaro volessero ucciderlo, ma per i due viaggiatori del tempo risultava incomprensibile il motivo. Reali pensò che forse la debolezza dell’uomo pesce più piccolo fosse la causa dell’accanimento degli altri, ma tenne per sé il dubbio.

Ancora più a ovest, con qualche grado a sud, si intravedevano le rovine scheletriche di una grossa ruota di luna park deturpata dai secoli e dall’acqua.

I due fluttuavano in un vortice di pensieri, immersi in ragionamenti che l’essere umano odierno non potrebbe cogliere senza trovarsi dinanzi allo spettacolo cui loro assistettero.

Lo sferragliare del vettore al contatto con il fondale su cui i due erano al sicuro, distolse il gruppo di uomini pesce dalla loro preda. Nel blu tutto intorno, murene di dimensioni innaturali roteavano attorno a pompe di benzina abbandonate, mentre pesci minuscoli e cetacei dai gusci colorati nuotavano liberi senza curarsi dello strano oggetto venuto dal passato.

Gli uomini pesce, invece, notarono la macchina triangolare con i due malcapitati a bordo. Senza pensare ad altro se non di attaccarli, forse per difesa o forse per pura aggressività, si diressero verso il mezzo nuotando veloci.

Diverse frecce di corallo vennero scagliate dagli uomini pesce muniti di utensili rudimentali simili a delle fiocine, colpirono l’obiettivo con facilità. Sfortuna volle che il resistente vetro s’incrinò, anche a causa della potente pressione subita a quelle profondità.

L’acqua, impietosa, iniziò a fluire nell’abitacolo prima a gocce sempre più grandi poi con minuscole cascatelle.

I due, presi dal panico, trafficarono veloci con la tastiera in plancia. L’acqua aumentava d’intensità, mentre il gruppetto di uomini pesce era ormai a pochi metri con le bocche spalancate e i denti bene in vista. Quegli esseri ricordavano al professor Reali antichi geroglifici di cui lesse in libri non riconosciuti dalla scienza del suo tempo. Il pensiero lo stupì non poco, confondendolo.

Alghe e residui organici iniziarono a fluttuare intorno ai piedi dei due che, spaventati, rinunciarono alla loro proverbiale curiosità e all’unisono tirarono la grande leva al centro della capsula.

Bolle di aria si alzarono veloci, tutto il triangolo iniziò a vibrare con violenza. I due lanciarono un grido che durò pochi istanti prima che un boato sordo scatenò un’onda così potente da allontanare ogni forma di vita intorno alla macchina. La sabbia si alzò scoprendo pavimenti di epoche antiche e viali con Sampietrini ancora ben visibili, tutto si placò in pochi istanti.

All’interno dell’aula magna, nel tempo di un battito di ciglia, il caos generato dall’avvio del macchinario poi svanito per pochi istanti, si era acquietato lasciando spazio a una calma incredula. I professori, dallo scranno, aprirono gli occhi e osservarono il mezzo ammaccato con vetri solcati da crepe consistenti vibrare fino a spegnersi.

Il giovane Saleri aprì la portiera, acqua salata, alghe e liquidi melmosi fuoriuscirono sul pavimento in legno impregnandolo di un odore salmastro.

Il professore scese pochi istanti dopo, in silenzio. Nessuno disse nulla. Erano passati pochi secondi nell’aula.

I due apparivano frastornati, svuotati dei loro spiriti e non riuscirono, o forse non vollero, aggiungere altro.

Era tutto nei loro scritti derisi e bollati come ridicoli.

Sullo scranno, uno dei professori notò la tesi del giovane Saleri aperta sull’ultima pagina, probabilmente dal vortice causato in precedenza dal macchinario, l’occhio gli cadde sull’ultima riga scritta in grassetto:

Il futuro non è poi così diverso dal nostro presente.

Il racconto è finito, qui puoi dirmi la tua o chiedermi cose in privato