Benvenuto a te che leggi.
I ricordi possono torturare. Sono veri e propri boia con tanto di lama che sfiletta la carne, capaci di ridurci in piccoli pezzi giorno dopo giorno, congelati e mai integri nel presente.
Leggi e resta al caldo mentre oggi scongelo una tavola da surf.
Sai che da qualche parte sta crescendo, la senti, la desideri. Succede mentre galleggi. Comprendere, quando desideri così tanto, non è possibile. Fluttui, le dai le spalle, non puoi fare altro perché è così che si fa per non affogare e tu non puoi affogare. Se la prendessi di petto, guardandola, andresti a fondo, moriresti e tu non sei mai andato giù.
Ti prepari. Il corpo deve essere in linea, la testa su, il collo deve tirare un po’ perché è teso. Lo hai sempre fatto. Quando senti sotto di te sparire tutto e il desiderio diventa di fuoco, capisci che è arrivata. Trattieni il respiro, lasci che la pelle si copra di brividi; hai caldo e ridi, gli occhi brillano.
Poi respiri, muovi le braccia e le mani e i muscoli si tirano, il corpo allineato deve alzarsi su, sali, mantieni una lieve inclinazione verso di lei, quanto basta, non troppo o vai giù. Tu non sei mai andato giù. Le dai quello che puoi di te. Devi portare lo sguardo oltre la tua spalla, vuoi guardarla altrimenti sei pavido perché questa volta è la più potente di tutte.
Lei vede te, sa tutto di te è più alta e burrascosa e odora tanto di mare. Remi più forte ma i muscoli bruciano subito e i tuoi occhi si fanno liquidi e gocciolano dentro di lei e diventano parte del mare e tu sai esattamente che in quel momento devi alzarti o impazzirai, o affogherai. Tu riesci sempre ad alzarti. Porti le mani parallele alle spalle e spingi con forza.
Lei è ovunque e non è come tutte le altre volte.
Ti pieghi un poco e surfi concentrato ma sai che questa volta non hai il controllo, sei su però. Sfiori l’acqua con le mani, la senti, la accarezzi e lei con la spuma ti sembra ti sorrida e ti fidi prendi velocità mentre lei si chiude su di te e ti avvolge ed è come quando eri nella pancia di tua mamma. È tutto liquido, ti specchi in lei e provi un piacere che striscia tra la vita e la morte e vorresti non fermarti mai.
L’hai mai provata una cosa del genere?
Il rumore di fondo ti ipnotizza, sei al caldo della tua muta O’Neill Psycho Tech da 6mm immerso dentro di lei, lei ti ha avvolto ed è tutto buio e vorresti solo fosse eterno, allenti la concentrazione, e in quel momento ti distrai.
Dentro il tubo d’acqua il rumore di fondo questa volta ti spaventa, non è come le altre volte, la corrente è tale da strapparti la muta che si perde nella spuma. Sai surfare, lo hai sempre fatto con ogni onda. Cosa succede?
Pensi che finirai giù e ti sembra che un po’ lo desideri perché qui in superficie riesci ad appagare l’idea che hai dato di te nel mondo, del tuo modo di surfare, di amare, quassù è come sei stato abituato, è come hai imparato e sei allenato invece sotto no, non ci sei mai finito.
Quest’onda è diversa, non te l’aspettavi e ora hai perso il controllo e te ne accorgi quando spingi sulla gamba davanti. Provi a seguire il flusso, ti appiattisci ma il peso imbarca la tavola che si impunta e ti catapulta in acqua.
“Sarebbe mai possibile descrivere il passato senza le immagini della profondità? E si potrebbe mai avere un’immagine della profondità piena se non si è meditato sulle rive di un’acqua profonda? Il passato della nostra anima è acqua profonda.” Gaston Bachelard.
Dal tu che ti mostra agli occhi del mondo che hai intorno, passo all’Io che guarda se stesso mentre cade in acqua.
Credevo di essere più preparato, più attrezzato. Non muovo un muscolo, anzi, mi lascio andare giù. Intorno, l’Australia è famosa per questo, c’è la barriera corallina e i colori sono così limpidi che mi rapiscono. Banchi di pesci mi girano intorno, in lontananza vedo uno squalo.
Vedo la luce allontanarsi e non mi curo di respirare. Mi piace il modo in cui ho disegnato i miei modi d’essere lassù in superficie, al sicuro da questo abisso dove mi trovo ora sono sempre rimasto a galla.
Fluttuo sempre più giù, due, quattro, sei, otto, dodici metri. Mi sembra la luce si spezzi quaggiù e non so perché ma riesco a respirare. Vedo una metà della tavola da surf affondare poco distante da me.
Come si può respirare immersi a decine di metri sott’acqua?
Mi giro, mi muovo, sono asciutto. Provo a muovere l’acqua ma intorno ho aria. Non sento niente. Dove sono finito? Dov’è quell’adrenalina, l’entusiasmo degli attimi in superficie ripetuti in eterno, al sicuro?
Sono dentro una bolla. Vedo tutto da qui, ma non sento niente, non sento il calore degli ultimi raggi di sole che arrivano, l’odore delle alghe, dei pesci, il sale del mare, l’acqua, niente.
E adesso?
Quando iniziamo la discesa al di sotto della superficie del mare, molti subacquei lamentano uno stato di agitazione generalizzata che aumenta con la profondità raggiunta, fino a configurarsi come reazione da panico. Al contrario, in altri questo favorisce uno stato di rilassamento, calma, pace, concentrazione. È arcaico fluttuare sott’acqua.
Io non sento niente qui sotto. Esiste questo, ad esempio, la depersonalizzazione, me lo ricordo, ne avevo sentito parlare. Non so cosa pensare. Mi guardo intorno e dalla schiena fino al collo sento freddo.
Desidero essere abbracciato, una sola volta, da un corallo, da un polpo, da una stella marina, ma si appiccicano al vetro e non riescono ad arrivare a me. Alghe verdi e azzurre fluttuano molli mentre la sabbia crea sbuffi di granelli per via di pesci piatti che solcano il fondo. La corrente dell’onda mi manda conchiglie e coralli che si infrangono sul vetro.
Mi ricordo di quando ero ancora dentro la pancia di mia madre, ascoltavo il cuore, sentivo il sangue e il rimbombare della voce e dell’attesa. Forse era meglio per me e per tutti se non fossi uscito di lì.
Chiudo gli occhi. Perché penso una roba così brutta?
Li riapro e prendo a pugni il vetro con tanta forza da farmi sanguinare le nocche.
I pesci intorno scappano, i polpi restano attaccati, una murena passa sopra di me e alcune anguille nuotano veloci con l’intenzione di non avvicinarsi. Finalmente il vetro si crepa e dalle fessure inizia a scorrere un po’ d’acqua. Mi basta sentirne l’odore salmastro che una tristezza infinita mi avvolge.
Questo c’è quaggiù? Invece di essere affogato, inizio a sentire qualcosa e sono triste?
Le crepe crescono e si allungano come serpenti tutte intorno alla bolla di vetro, la tristezza cresce come un rampicante dentro di me e si annoda ai muscoli e ai tendini. Intorno alla sfera pesci colorati, polpi, coralli, ricominciano ad ammassarsi. L’acqua riempie la palla e mi arriva fino al collo, ormai le crepe sono tutte intorno e mi viene da piangere dalla tristezza. Un polpo infila i tentacoli nella bolla di vetro e un pesce di cinque colori verde, viola, rosso, celeste e oro cade dentro. Dopo di lui tutti gli altri e sono circondato da decine di colori e movimenti immerso in acqua è calda. Io sento le crepe del vetro scricchiolare dietro di me ma non provo altro che questa tristezza infinita.
Non era così male la superficie, non era così male avere il controllo. Provo ad alzare gli occhi ma è lontana finché, in un istante, la sfera di vetro esplode tagliandomi viso e braccia, ferendo i pesci che scappano via mentre fluttuo in acqua contornato di schegge di vetro. Intravedo il rosso del sangue mischiarsi al mare; uno squalo, probabilmente lo stesso di prima, mi punta e al suo primo movimento perdo conoscenza.
C’è il sole, sento rumore di ghiaccio dentro di me che scricchiola, sputo acqua e sale. La sabbia calda sulla schiena non mi riscalda il corpo ma ne percepisco il calore dei granelli, ho gente intorno che sembra tirare un sospiro di sollievo. Sputo altra acqua. Sento parlare in inglese. Mi giro, mezza tavola è accanto a me.
Sorrido, un sorriso finto, non voglio pensino io stia male, sorrido perché alla fine una lacrima salata ha radici più profonde e vere di un sorriso di circostanza e le persone non devono intravedere l’abisso, ma solo la superficie, affabile, che posso controllare.
Guardo la tavola da surf fuori dal freezer, è intera. Sono certo che laggiù in quell’abisso se esiste la tristezza si trova anche gioia. La vita è lì. Il resto è solo affabile apparenza.
Se pensi di sentire anche tu il significato del vivere in una bolla di vetro, qui puoi condividerlo con me se ti va.
Come nuova abitudine iniziata ad Agosto ti lascio un ricordo caldo delle due ultime settimane, bello o brutto che sia.
Entro all’acquario romano a Piazza Fanti a Roma. La tavola a ferro di cavallo ha solo il vino servito, una bottiglia rossa e una bianca alternate. Saluto gli amici di Slow Food, alcuni amici del comune e del municipio di Roma, abbraccio Nicola Lagioia. L’idea della “Comida Stampa“ e non conferenza stampa mi incuriosisce. Mi siedo. La presentazione del Festival Multi è una conferenza conviviale, un introdurre l’evento mangiando, bevendo, condividendo. Il punto è che io parlo per ultimo. Quindi il vino, dopo un po’, la bottiglia rosso rubino che ho davanti, diventa trasparente. E mi gira la testa e rido un po’ e penso che è un’idea geniale togliere la formalità di una conferenza stampa con il vino, togliere il controllo totale.
Lasciamo la parola ad Andrea Fassi. Dicono al microfono.
Andrea chi? Dico.
Andrea non c’è, dico.
Lo dico a bassa voce, lo dice quella parte di me che sa che quando devo parlare con le persone una versione di me liquida se ne va, come ho scritto qui.
Mi alzo, barcollo un po’, prendo il microfono e tutti mi guardano e vedo la mia faccia arrossata proiettata su uno schermo enorme, luci scure, vedo solo il nero dei capelli e il rosso delle guance. E inizio a parlare non so come. Dico il Festival Multi è un argine che frena l’idea che il cibo italiano sia il centro del mondo, “Multi” può ricordarci che la memoria vale anche nel cibo, perché ciò che mangiamo oggi e difendiamo come eccellenza italiana, ha radici in una commistione di culture. Fanno un applauso. Dico grazie per avermi messo in coda come le persone importanti, ma se lasciate una persona in coda, la prossima volta, non lasciategli pure una bottiglia di vino rosso, piena, a disposizione.
Sarò presente al “Multi” Sabato 21 Settembre alle 13:00 a Piazza Vittorio all’Esquilino, insieme a due persone meravigliose per un’ora. Il titolo dell’oretta insieme è “Il gelato non è italiano.“ Se siete a Roma e vi va, venite.
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Copertina del mio amico geniale Luigi Annibaldi!
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